Chi sono i nuovi contagiati

Perché continuano a esserci duemila nuovi contagiati al giorno, nonostante quasi due mesi di misure restrittive? È importante conoscere la risposta, in vista della "fase 2"

di Elena Zacchetti

Bergamo (Marco Di Lauro/Getty Images)
Bergamo (Marco Di Lauro/Getty Images)

Nelle ultime tre settimane il numero delle persone risultate positive al coronavirus in Italia è diminuito, ma ancora oggi si registrano quasi sempre più di duemila nuovi contagi al giorno. In numeri assoluti, le tre regioni italiane in cui si stanno registrando più nuovi casi sono Lombardia, Piemonte ed Emilia-Romagna, mentre le due province con la curva dei contagi meno piatta sono Milano e Torino, che hanno registrato fino a oltre 400 nuovi casi al giorno.

Gli attuali duemila casi registrati al giorno sono più di quelli registrati nei giorni di marzo immediatamente precedenti al “lockdown” nazionale, quando però si facevano molti meno test di oggi: più o meno 5.000 al giorno, contro i 60.000 raggiunti in questo periodo. Nonostante questo non sono pochi, visto che da quasi due mesi l’Italia è in “lockdown”. Dove si sono contagiati i nuovi positivi, considerato che gli spostamenti sono estremamente limitati, le misure di distanziamento interpersonale per lo più rispettate, le scuole e le università riapriranno solo a settembre, e molte attività economiche temporaneamente chiuse?

Sono domande che si fanno in molti e a cui non è facile dare una risposta esauriente, vista la reticenza di alcune istituzioni a diffondere i dati, e vista la difficoltà oggettiva di contare tutte le persone che potrebbero avere contratto il coronavirus ma che non sono state sottoposte a un tampone (e che per lo più non risultano nelle statistiche ufficiali). Il Post ha parlato con una dozzina di medici di Lombardia, Piemonte ed Emilia-Romagna, con autorità sanitarie e politiche locali e con rappresentanti sindacali di CGIL e FIOM, per capire chi siano oggi i nuovi contagiati dal coronavirus – sia quelli che rientrano nei dati ufficiali sia quelli che ne sono esclusi.

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Partiamo dai dati ufficiali, cioè quelli che diffonde ogni giorno la Protezione Civile alle 18, che sono forniti dalle regioni e che – come ormai si è capito – sono da prendere con molta cautela.

La voce dei “nuovi positivi” nei dati della Protezione Civile riguarda solo le persone che sono risultate positive a un tampone, e finora in molte regioni italiane il tampone è stato fatto solo ai pazienti ricoverati in ospedale – quindi i più gravi – e in alcuni casi a particolari categorie protette. Nelle ultime tre settimane il numero di tamponi effettuato nelle regioni più colpite, in particolare in Lombardia, Piemonte ed Emilia-Romagna, è aumentato in maniera graduale, così come è diminuita progressivamente la pressione sugli ospedali, sotto forti stress nelle prime fasi dell’epidemia. È stato quindi possibile cominciare a fare i tamponi anche al di fuori degli ospedali, andando a cercare i casi positivi tra le strutture e le categorie più a rischio: in particolare nelle RSA (le case di riposo) e tra gli operatori sanitari, i più esposti all’infezione.

Questo è un punto importante: significa che tra i nuovi positivi comunicati dalla Protezione Civile nelle ultime tre settimane non ci sono solamente i nuovi contagiati, ma anche persone che avevano già contratto il virus e che ora vengono incluse nei dati ufficiali perché sottoposte a tampone, infine. Il numero dei nuovi contagiati va letto quindi insieme a quello sulle persone ricoverate (che sono sempre di meno) e a quello dei tamponi effettuati (che sono sempre di più): e tutti insieme suggeriscono un graduale miglioramento della situazione.

Postazione in cui vengono effettuati tamponi ad automobilisti nel presidio sanitario Villarosa a Collegno, Torino (ANSA/ ALESSANDRO DI MARCO)

Luigi Genesio Icardi, assessore alla Sanità del Piemonte, ha detto al Post che le autorità sanitarie regionali stanno facendo un grande sforzo per effettuare più tamponi possibili. Circa il 60 per cento dei tamponi, ha detto Icardi, si sta realizzando ora nelle RSA, le strutture più colpite, che comunque continuano a registrare diversi nuovi casi: «Sappiamo di andare nei focolai dell’epidemia, ed è per questo che il numero dei casi positivi in Piemonte è ancora così alto». Questo sforzo viene mostrato anche dal rapporto tra tamponi effettuati e positivi rilevati. Se alla fine di marzo in Piemonte veniva registrato un positivo ogni tre-quattro tamponi effettuati, negli ultimi giorni questo rapporto è cambiato: viene rilevato un positivo ogni dieci-quindici tamponi, segno che si sono iniziate a testare molte più persone di prima.

Anche in Lombardia nelle ultime settimane si sono cominciati a fare più tamponi nelle RSA e tra gli operatori sanitari. Il dato è stato confermato da alcune ATS lombarde contattate dal Post, tra cui l’ATS Val Padana (che fa riferimento alle province di Cremona e Mantova) e l’ATS Milano (ATS è la sigla delle Agenzie di Tutela della Salute, enti pubblici che gestiscono la sanità regionale lombarda, e che in altre regioni si chiamano ASL).

Non ci sono numeri ufficiali per descrivere meglio quello che sta succedendo in Lombardia perché dall’inizio dell’epidemia la regione, e in particolare il suo presidente Attilio Fontana e il suo assessore al Welfare Giulio Gallera, sono stati molto poco trasparenti sulle politiche adottate per far fronte all’emergenza.

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Secondo un’analisi realizzata da Isaia Invernizzi, giornalista dell’Eco di Bergamo, e basata su dati regionali aggiornati fino al 15 aprile, già nella prima metà del mese diverse province lombarde avevano iniziato ad aumentare il numero di tamponi effettuati nelle RSA: nelle province di Milano, Brescia e Como, infatti, l’età media dei casi positivi accertati era aumentata in maniera significativa (non nella provincia di Bergamo, dove probabilmente si è iniziato a testare il personale e i degenti delle RSA in ritardo). La regione Lombardia non ha fornito dati successivi al 15 aprile, non è chiaro per quale motivo.

Anche l’Emilia-Romagna ha aumentato significativamente il numero dei tamponi realizzati nelle ultime tre settimane, concentrandosi soprattutto sulle RSA e su due categorie professionali: gli operatori sanitari e le forze di sicurezza. Una medica che lavora in provincia di Modena ha raccontato al Post che da un paio di settimane è inoltre possibile sottoporre al tampone anche persone che non sono passate dall’ospedale e che non fanno parte di particolari categorie professionali: per esempio pazienti che mostrano sintomi da molto tempo, che quindi finiscono per rientrare tra i “nuovi positivi” anche se si sono infettati diverso tempo prima.

Il fatto che i nuovi tamponi siano realizzati per lo più nelle RSA contribuisce a “gonfiare” il numero di nuovi casi positivi diffuso ogni giorno dalla Protezione Civile, ma non spiega completamente il perché si continuino ad avere nuove infezioni da coronavirus, nonostante il “lockdown” imposto in tutta Italia. Ci sono almeno altri tre luoghi nei quali avvengono più contagi: le case private, gli ambienti di lavoro e gli ospedali, soprattutto quei reparti non destinati ai pazienti malati di COVID-19, dove le misure di sicurezza sono meno elevate e i dispositivi di protezione meno disponibili.

Questi tre luoghi, oltre a essere citati nell’ultimo rapporto sul coronavirus dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS), sono stati individuati da medici ed esperti sentiti dal Post come posti dove il rischio di contagio è ancora elevato. A preoccupare in particolare sono i contagi intra-familiari, cioè quelli che avvengono tra persone che vivono nella stessa casa.

Quello dei contagi intra-familiari non è un problema nuovo: si è visto fin dalle prime fasi dell’epidemia, soprattutto in alcune delle zone più interessate, come la Val Seriana (in provincia di Bergamo) o alcuni paesi delle province di Cremona e Brescia. Un medico che lavora in provincia di Bergamo e nelle valli vicine ha detto al Post che nella zona in cui opera i contagi intra-familiari non sono così rilevanti oggi, perché «tutte le famiglie si erano già contagiate nelle prime settimane dell’epidemia».

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In altre zone della Lombardia, come per esempio Milano, il problema dei contagi intra-familiari sembra invece più rilevante, anche se non ai livelli di un mese fa. È anche per questo che il comune di Milano sta continuando a fare pressione alla regione e alla ATS per potenziare il servizio degli alberghi per i pazienti dimessi dagli ospedali, cioè strutture riconvertite ad alloggi per persone positive al tampone che non hanno la possibilità di fare un isolamento domiciliare efficace a casa propria, per ragioni sociali o banalmente per mancanza di spazio. Al momento a Milano è attiva solo una struttura di questo tipo, l’Hotel Michelangelo, con decine di posti letto ancora liberi.

L’hotel Michelangelo di Milano (ANSA/Matteo Corner)

Il problema dei contagi intra-familiari non è al centro del dibattito solo in Lombardia, ma anche nelle altre due regioni italiane più colpite, Emilia-Romagna e Piemonte.

Durante una conferenza stampa del 22 aprile, Sergio Venturi, commissario per l’emergenza coronavirus in Emilia-Romagna, ha citato un dato preoccupante: ha detto che in una provincia dell’Emilia-Romagna il 40 per cento dei nuovi casi positivi rilevati nei precedenti dieci giorni era da attribuire a contagi intra-familiari. Una preoccupazione simile è stata espressa anche da Roberto Venesia, segretario generale della Federazione italiana dei medici di famiglia (FIMMG) del Piemonte, che ha sottolineato come i nuovi contagi si stiano verificando, oltre che nelle residenze per anziani, anche nei domicili: «Bisognerebbe mettere in atto misure di isolamento vere, con una reale possibilità di tracciare i contagi», ha detto Venesia, che ha specificato come oggi questo sistema ancora non funzioni come dovrebbe.

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Spesso i contagi familiari, così come quelli che avvengono sui posti di lavoro, non sono inclusi nei dati ufficiali. Tutti i medici di famiglia sentiti dal Post, e che lavorano nelle altre regioni, hanno confermato la tendenza mostrata dai numeri della Protezione Civile: la diffusione del virus si sta riducendo ogni giorno di più, e in particolare nelle ultime tre settimane i nuovi sospetti positivi – quindi persone con sintomi compatibili alla COVID-19 ma senza tampone – sono stati pochissimi. Tra loro ci sono per lo più personale e degenti delle RSA, operatori sanitari e familiari di persone risultate positive.

Secondo gli ultimi dati dell’ISS, che però si basano su un campione ristretto e che sono quindi da prendere con cautela, gli ambienti lavorativi sono oggi il quarto luogo di esposizione al coronavirus: dall’inizio di aprile e fino a giovedì 23, solo il 4 per cento dei nuovi contagi è stato collegato all’ambiente di lavoro. Ci sono però almeno due considerazioni da fare.

La prima è che i dati dell’ISS potrebbero non rispecchiare del tutto la realtà, e non solo per le dimensioni del campione considerato: potrebbero non considerare tutti coloro che hanno contratto il virus sul posto di lavoro e che non hanno fatto il tampone. Alcune aziende hanno cominciato a sottoporre i propri dipendenti al tampone o ai test sierologici, sulla cui affidabilità ci sono comunque ancora parecchi dubbi, ma per il momento sono iniziative isolate. Anche quello dei contagi sul posto di lavoro è da considerarsi quindi un dato parziale, che racconta solo un pezzo della storia.

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La seconda considerazione riguarda invece il prossimo futuro, e in particolare i timori per quello che potrebbe accadere a partire dal 4 maggio, con la riapertura di molte aziende.

Massimo Balzarini, segretario di CGIL Lombardia, ha detto che già ora non si ha un’idea chiara su quanto siano rispettate le misure di sicurezza nelle aziende della regione: «ATS Milano ha mandato un questionario alle aziende per verificare se fossero rispettate le misure di sicurezza. Solo il 10-15 per cento ha risposto». Secondo Balzarini, la situazione potrebbe peggiorare dopo il 4 maggio, quando molte persone torneranno al lavoro e sarà più difficile rispettare tra le altre cose il distanziamento tra persone. Edi Lazzi, segretario generale di FIOM-CGIL Torino, ha definito le riaperture di lunedì prossimo una «prova del fuoco» e ha individuato in particolare due problemi: l’uso dei mezzi di trasporto pubblici, su cui non si è ancora stabilito un piano preciso per evitare assembramenti; e la situazione nelle aziende in cui non è presente il sindacato, e dove il rispetto delle norme dipenderà per lo più dal buon senso dei datori di lavoro e dei lavoratori stessi.

In sintesi: la situazione sembra essere da settimane in netto miglioramento, ed è una tendenza confermata sia dai dati ufficiali, sia dalle testimonianze dei medici di famiglia e delle autorità locali, che raccontano il mondo dei malati di COVID-19 al di là dei tamponi. La maggior parte dei nuovi casi è legata alle positività nelle RSA e nelle strutture sanitarie, ma anche i contagi intra-familiari continuano a incidere nel bilancio finale. Tra qualche giorno, con le prime riaperture del 4 maggio, ci sarà invece da osservare con più attenzione ciò che succede nei posti di lavoro.