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  • Sabato 4 gennaio 2020

Cosa diavolo vuole fare Trump con l’Iran?

Storia di tre anni di strategie aggressive e imprevedibili, per provare a trovarci un senso (che secondo qualcuno non c'è)

di @elenazacchetti

(Alex Wong/Getty Images)
(Alex Wong/Getty Images)

L’uccisione del potente generale iraniano Qassem Suleimani, compiuta dagli Stati Uniti nella notte tra giovedì e venerdì con un lancio di droni all’aeroporto internazionale di Baghdad (Iraq), è la mossa più spericolata realizzata finora dal presidente statunitense Donald Trump nei confronti dell’Iran. Il governo iraniano l’ha definita un «atto di guerra» e ha minacciato ritorsioni, anche se per ora non si sa di che portata saranno e se provocheranno l’inizio di un nuovo conflitto.

Non è chiaro quale sia la strategia di Trump: ieri il presidente americano ha ripetuto di non voler iniziare una guerra con l’Iran, ma con le sue azioni potrebbe arrivare a provocarla. Quello che si sa è che Trump non è nuovo a decisioni imprevedibili in politica estera: nel corso della sua presidenza ha dimostrato in più occasioni di avere idee confuse e contraddittorie, anche verso l’Iran, paese che è nemico degli Stati Uniti ma con cui gli Stati Uniti, almeno formalmente, non sono in guerra.

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Per capire come siamo arrivati a questo punto c’è da tornare indietro all’8 maggio 2018, giorno in cui Trump annunciò il ritiro degli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare iraniano. Quella decisione provocò un aumento improvviso della tensione tra i due paesi e da allora la politica americana in Iran è stata una serie di decisioni non spiegabili da una strategia precisa, ma solo dall’obiettivo generale di indebolire il regime iraniano e le sue azioni all’estero, e distanziarsi dall’approccio più disteso e diplomatico adottato negli anni precedenti da Barack Obama.

Il ritiro americano dall’accordo sul nucleare, quando iniziò tutto

L’accordo sul nucleare iraniano, definito da molti «storico», era stato voluto e firmato dal predecessore di Trump, Barack Obama, e si basava su uno scambio: l’Iran avrebbe ridotto la sua capacità di arricchire l’uranio, privandosi della possibilità di costruire la bomba nucleare, mentre gli Stati Uniti e gli altri paesi firmatari avrebbero rimosso alcune delle sanzioni imposte negli anni precedenti.

Era il risultato di uno sforzo diplomatico enorme, iniziato diversi anni prima e sviluppato sull’idea che un Iran propenso a collaborare, quindi non eccessivamente ostile, avrebbe permesso alla comunità internazionale di frenare l’eventuale costruzione della bomba nucleare, tenendo sotto controllo gli impianti e le centrali iraniane. L’accordo doveva servire anche per ridurre la tensione tra Stati Uniti e Iran, esistente tra i due paesi dal 1979, anno della Rivoluzione khomeinista, che aveva trasformato l’Iran in una Repubblica Islamica ostile all’Occidente.

Da sinistra a destra: l’Alto rappresentante per gli Affari esteri europei, Federica Mogherini, il ministro degli Esteri iraniano, Mohammad Javad Zarif, il segretario di Stato britannico, Philip Hammond, e il segretario di Stato americano, John Kerry, annunciano il raggiungimento dell’accordo sul nucleare iraniano il 2 aprile 2015 in Svizzera (AP Photo/Keystone, Jean-Christophe Bott, File)

Trump era già stato critico verso l’intesa durante la campagna elettorale del 2016: lui e buona parte dei conservatori statunitensi ritenevano che l’accordo non fosse abbastanza favorevole agli Stati Uniti e pensavano che la rimozione delle sanzioni non avrebbe fatto altro che rafforzare l’Iran, che avrebbe avuto più soldi da investire nei suoi programmi missilistici e nelle sue campagne di aggressione in altri paesi del Medio Oriente, come quelle portate avanti proprio dal generale Suleimani.

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È importante ricordare che quando l’8 maggio 2018 Trump annunciò il ritiro degli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare, l’Iran non aveva compiuto alcuna violazione consistente dei termini del trattato. A violare l’accordo, semmai, era stato Trump, che aveva deciso di reintrodurre unilateralmente le sanzioni tolte tre anni prima. E questa cosa fece arrabbiare molto gli iraniani.

Un nuovo accordo sul nucleare o un cambio di regime in Iran?

Ancora oggi non è chiaro il motivo per cui Trump decise di fare quella mossa, molto inusuale nella politica internazionale, dove gli stati tendono a mantenere fede agli impegni presi nonostante i cambi di governo.

Allora si disse che Trump era stato condizionato dai suoi consiglieri più conservatori e dai suoi alleati più intransigenti (come Arabia Saudita e Israele), che volesse indebolire l’eredità politica di Obama, e che pensasse davvero che l’accordo fosse svantaggioso per gli Stati Uniti. Molti si chiesero quale fosse l’obiettivo finale di quella mossa: era quello di costringere il governo iraniano a negoziare un nuovo accordo sul nucleare, come disse più volte il governo americano? Oppure quello di fare pressione affinché in Iran ci fosse un “cambio di regime” che rimuovesse dal potere i religiosi più radicali, come invece suggerirono alcuni consiglieri dell’amministrazione, come l’allora consigliere per la Sicurezza nazionale John Bolton?

Un tweet di John Bolton – recente, del 3 gennaio, pubblicato dopo l’uccisione di Suleimani – che termina dicendo: «Spero che questo sia il primo passo per il cambio di regime a Teheran»

Nei mesi successivi, la decisione di Trump di ritirarsi dall’accordo sul nucleare cominciò a produrre i primi significativi effetti, alcuni dei quali in apparente contrasto con l’intenzione del governo americano di indebolire le forze più conservatrici dell’Iran.

Da una parte la reintroduzione delle sanzioni statunitensi cominciò ad avere conseguenze dirette sull’economia iraniana, in particolare rendendo difficoltosa la vendita del petrolio, e rese molto complicato per i paesi europei rispettare la loro parte dell’accordo (la questione è spiegata estesamente qui). Da questo punto di vista, la politica di Trump – che spingeva per il “massimo isolamento” dell’Iran – sembrò funzionare.

Il problema però è che il ritiro degli Stati Uniti dell’intesa aveva cambiato gli equilibri nella politica iraniana: aveva indebolito quella parte del regime che l’accordo l’aveva negoziato e voluto, cioè la fazione più moderata guidata dal presidente Hassan Rohuani, e aveva rafforzato le élite più conservatrici, quelle contrarie a scendere a patti con l’Occidente, cioè la Guida suprema Ali Khamenei e le stesse Guardie rivoluzionarie, il corpo militare a cui apparteneva Suleimani.

In altre parole: la decisione di Trump non aveva fatto nascere nuove forze conservatrici, né aveva rivoluzionato la politica iraniana, da quarant’anni particolarmente ostile verso l’Occidente: aveva però ridato forza alle fazioni più aggressive ed estremiste, che sulla scia dell’entusiasmo per il raggiungimento dell’accordo sul nucleare avevano perso consensi.

Da sinistra a destra: la Guida suprema iraniana, Ali Khamenei, il religioso sciita Muqtada al Sadr, e Qassem Suleimani (Office of the Iranian Supreme Leader via AP)

Già allora emersero nuovi dubbi sull’approccio di Trump. Con il rafforzamento della fazione ultraconservatrice, l’ipotesi di riaprire i colloqui sul nucleare si faceva sempre più irrealizzabile, e allo stesso tempo l’idea di un cambio di regime non sembrava praticabile. Nella seconda metà del 2019 la situazione peggiorò ulteriormente e iniziò una nuova lunga fase di crisi che fece parlare del possibile inizio di una guerra.

Gli attacchi nel Golfo Persico e il problema del disimpegno militare

A partire dall’estate del 2019 le Guardie rivoluzionarie iraniane iniziarono a compiere diversi attacchi contro petroliere straniere nel Golfo Persico e nello Stretto di Hormuz, il tratto di mare che divide il Golfo Persico dal Golfo dell’Oman. Sequestrarono navi ed equipaggi, violarono per la prima volta l’accordo sul nucleare del 2015 e abbatterono un drone americano provocando la reazione furiosa degli Stati Uniti.

Il 20 giugno Trump annunciò di avere approvato e poi annullato all’ultimo secondo un’operazione militare contro l’Iran che avrebbe dovuto essere una ritorsione contro l’abbattimento del drone. In maniera del tutto inusuale per un presidente di un paese così potente, Trump spiegò su Twitter di avere cambiato idea perché «un generale» gli aveva detto che a causa del lancio del missile sarebbero potuto morire 150 persone, un bilancio troppo elevato per quelle circostanze.

La spiegazione non convinse del tutto, e secondo i giornali americani ci furono altre ragioni che spinsero Trump a cambiare idea: per esempio la pressione esercitata su di lui dai membri più prudenti della sua amministrazione, e lo scetticismo verso l’attacco espresso da Tucker Carlson, ospite fisso di Fox News, praticamente l’unico canale di informazione americano che tratta il presidente in maniera benevola (e che si dice eserciti una certa influenza su di lui).

Trump fu accusato di nuovo di non avere una strategia sull’Iran e di non riuscire a dare continuità e coerenza alle sue politiche, facendosi influenzare in maniera eccessiva dal consigliere o dal militare più influente in quel momento.

Qassem Suleimani in una foto del febbraio 2016 (AP Photo/Ebrahim Noroozi)

Gli Stati Uniti pagarono le loro incertezze sull’Iran anche in Siria, dove mantenevano un piccolo contingente militare con gli obiettivi di assicurarsi la definitiva sconfitta dell’ISIS e di frenare la sempre crescente presenza iraniana nel paese, garantita dall’azione delle Guardie Rivoluzionarie e del corpo speciale guidato da Suleimani. La cosa che più preoccupava il governo americano era l’intenzione iraniana di creare una specie di “corridoio” tra l’Iran e il sud del Libano, passando da Iraq e Siria – un progetto che se realizzato avrebbe rafforzato molto l’influenza e il potere iraniani in questo pezzo di Medio Oriente.

Spinto dalla volontà di ritirare i soldati americani dalla Siria, come aveva promesso di fare in campagna elettorale e durante i suoi primi anni di presidenza, e allo stesso tempo dalla necessità di mantenere una presenza militare, tra la fine del 2018 e l’inizio del 2019 Trump fece dichiarazioni contraddittorie su quelli che sarebbero stati i successivi passi degli Stati Uniti: prima annunciò, tra lo stupore di avversari e alleati, che i militari americani avrebbero lasciato la Siria nel giro di 30 giorni; poi, un mese dopo, fece un passo indietro, annunciando nuove condizioni per il ritiro, che di fatto lo rallentarono e ridimensionarono.

La questione del ritiro dei soldati americani dalla Siria e da tutto il Medio Oriente, molto cara a Trump, continua a essere al centro del dibattito ancora oggi. Dopo l’uccisione di Suleimani, il governo statunitense ha annunciato l’invio di altri soldati nella regione, per reagire adeguatamente a una eventuale ritorsione dell’Iran.

Perché uccidere Suleimani, e perché proprio ora?

Gli sviluppi degli ultimi giorni hanno creato ancora più confusione. Molti si sono chiesti come mai Trump abbia deciso di ordinare l’uccisione di Suleimani, soprattutto quando i due presidenti prima di lui avevano rifiutato di farlo per paura dell’inizio di una nuova guerra. E inoltre, perché proprio ora?

Il governo americano ha sostenuto che Suleimani stesse preparando attacchi contro obiettivi statunitensi in Libano e Iraq, ma finora non ha fornito prove delle sue affermazioni e un’indagine di NBC News ha mostrato come i deputati statunitensi non fossero a conoscenza di alcuna minaccia imminente e fuori dall’ordinario proveniente dall’Iran.

Secondo fonti consultate dalla stampa americana, la decisione di Trump di uccidere Suleimani era stata presa la scorsa settimana, dopo l’uccisione di un contractor americano in una base militare irachena durante un bombardamento compiuto dalla milizia filo-iraniana Kataib Hezbollah. Non è chiaro invece che peso abbia avuto l’assedio all’ambasciata americana a Baghdad, compiuto da milizie sciite filo-iraniane tra martedì e mercoledì di questa settimana.

L’interpretazione più diffusa è che l’uccisione di Suleimani sia stata il risultato della progressiva escalation di tensione avvenuta nell’ultimo anno e mezzo tra Iran e Stati Uniti, e delle azioni sempre più aggressive e violente compiute dalle Guardie Rivoluzionarie iraniane soprattutto in Iraq. Quello che non è chiaro, comunque, è se gli Stati Uniti abbiano una strategia per rispondere a eventuali ritorsioni iraniane e se siano in grado di tenere sotto controllo la situazione tanto da non arrivare a un conflitto ancora più violento con l’Iran.

Secondo diversi esperti, Trump potrebbe avere sottovalutato i rischi derivanti dall’uccisione di Suleimani, per esempio non considerando «un atto di guerra» l’operazione di giovedì notte. Come ha detto al New Yorker Douglas Silliman, ambasciatore americano in Iraq fino allo scorso inverno, l’uccisione di Suleimani si potrebbe paragonare all’ipotetica uccisione del comandante delle operazioni militari americane in Medio Oriente e Nordafrica (Centcom). Cosa farebbero gli Stati Uniti se un paese straniero uccidesse il comandante in capo del Centcom? Con molta probabilità il governo americano parlerebbe di «un atto di guerra», proprio come ha fatto l’Iran venerdì (e come invece si è rifiutato di fare Trump).

Il punto è che non è chiaro come la morte di Suleimani possa contribuire in qualche modo al raggiungimento degli obiettivi di Trump.

L’attacco statunitense ha attirato moltissime critiche anche tra i moderati e i riformatori iraniani, cioè quelle forze che nella politica dell’Iran cercano di bilanciare il potere degli ultraconservatori. L’impressione è che gli sviluppi degli ultimi giorni abbiano affossato definitivamente qualsiasi speranza di riaprire un dialogo sul nucleare iraniano e abbiano rafforzato la posizione di quelli che detengono le posizioni di maggiore potere nella complicata struttura istituzionale iraniana, cioè le fazioni più radicali e più ostili a qualsiasi cambiamento.

Negar Mortazavi, corrispondente dell’Independent ed esperta di Iran, ha scritto: «Ricordate: Trump si è ritirato dal trattato sul nucleare iraniano contro il parere praticamente di tutti. Ha detto che l’accordo non era abbastanza buono e che ne avrebbe trovato uno migliore, perché lui era il miglior negoziatore in circolazione. Beh, non ha ottenuto un nuovo accordo, ha ottenuto una nuova guerra». Ali Vaez, esperto di Iran dell’International Crisis Group, ha scritto, riferendosi invece al rafforzamento degli ultraconservatori iraniani a scapito dei moderati: «Trump sembra sia riuscito a ottenere un cambio di regime, ma non del tipo che si aspettava».