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  • Martedì 19 novembre 2019

La situazione in Bolivia non si sblocca

Il governo autoproclamato non convoca le nuove elezioni, Morales è ancora in Messico e per le strade continuano proteste e violenze

Sostenitori dell'ex presidente Evo Morales a La Paz, Bolivia, 14 novembre
(AP Photo/Natacha Pisarenko)
Sostenitori dell'ex presidente Evo Morales a La Paz, Bolivia, 14 novembre (AP Photo/Natacha Pisarenko)

In Bolivia continuano a esserci grandi tensioni e divisioni, quasi dieci giorni dopo le dimissioni del presidente Evo Morales, costretto a lasciare il suo incarico dalle pressioni dell’esercito in seguito alle accuse di brogli elettorali e alle proteste di piazza delle ultime settimane. L’autoproclamata presidente Jeanine Áñez, del partito conservatore Movimento Democratico Sociale, ha promesso di voler fissare una data per le elezioni e di voler “pacificare il paese”: non ha ancora fatto né una cosa né l’altra, mentre i sostenitori di Morales – che nel frattempo è rifugiato in Messico – continuano a gridare al colpo di stato, definizione su cui gli esperti non sono del tutto d’accordo.

I morti dall’inizio delle proteste e degli scontri sono stati 24, con 550 feriti e decine di arresti. Le ultime gravi violenze si sono verificate venerdì scorso a Sacaba, alla periferia di Chocabamba, quando la polizia ha sparato su una folla di sostenitori di Morales uccidendo dodici persone. La provincia di Chaparé, dove si trova Sacaba, è uno dei principali centri della coltivazione di coca, nonché una delle roccaforti del consenso di Morales, che cominciò la sua carriera pubblica proprio come sindacalista dei cocaleros, i raccoglitori della coca.

Una protesta dei sostenitori dell’ex presidente Evo Morales a La Paz, 18 novembre (AP Photo/Natacha Pisarenko)

Le proteste si sono concentrate anche a La Paz, dove continuano a protestare e a sfilare le persone indio, che in alcune occasioni sono state guidate dalla cosiddetta milizia dei “Poncho Rossi”, formata da riservisti dell’esercito di etnia Aymara, il cui slogan negli ultimi giorni è stato “Ahora sí, guerra civil” (ora sì, guerra civile).

Una protesta dei sostenitori dell’ex presidente Evo Morales a La Paz, Bolivia, 15 novembre
(Gaston Brito Miserocchi/Getty Images)

Áñez e il suo governo, formato senza una maggioranza in Parlamento e grazie alle pressioni dei capi dell’esercito, ha attribuito alle violenze di piazza le difficoltà incontrate finora nel necessario processo di pacificazione nazionale, considerata da molti esperti l’unica strada per uscire dalla crisi. Lo stesso Morales, dal Messico, ha chiesto «alle organizzazioni internazionali come l’ONU, ai paesi amici in Europa e alle istituzioni come la Chiesa cattolica (…) di accompagnarci nel dialogo per pacificare la nostra amata Bolivia».

Su Twitter però Morales continua ad accusare di golpe Áñez insieme a Carlos Mesa, il suo sfidante alle presidenziali di fine ottobre, e a Luis Fernando Camacho, il leader dell’estrema destra boliviana. Ha chiesto che vengano identificati i poliziotti e i soldati responsabili della morte dei 24 manifestanti, che secondo Morales avevano tutti origini indigene.

Da parte sua, Áñez ha detto che se Morales tornerà in Bolivia non sarà perseguito politicamente, ma ha anticipato che dovrà vedersela con la giustizia sulle accuse di frode elettorale. Morales aveva detto in un’intervista a El País di essere disposto a tornare in Bolivia a dimettersi, alludendo anche alla possibilità di non ricandidarsi alle prossime elezioni. Áñez in teoria ha tre mesi di tempo per fissare una data, ma ci si aspetta che lo faccia molto prima per provare a placare le proteste. Il governo ad interim ha fatto capire di considerare l’ipotesi di convocarle per decreto, senza cioè passare dal Parlamento, dove non ha la maggioranza per via dell’opposizione del Movimento per il Socialismo di Morales.