La storia di Gap

L'azienda che ha reso di moda vestirsi casual da qualche tempo è considerata anonima e un po' noiosa: ma non era quello lo spirito con cui aprì, 50 anni fa

(Justin Sullivan/Getty Images)
(Justin Sullivan/Getty Images)

Nel film del 2011 Crazy, stupid, love il personaggio interpretato da Ryan Gosling, impeccabilmente alla moda, accompagna a fare shopping quello di Steve Carell, sfigato e senza gusto: a un certo punto, esasperato dall’altro che rovista jeans dalla taglia sbagliata, Gosling sbotta dicendo: “Be better than the Gap!”, “Meriti più di Gap!”.

Gap è un marchio di abbigliamento diventato il simbolo del vestire casual e normcore degli anni Novanta, con pantaloni larghi, polo, magliette e felpe; era nato per i più giovani ma ora è indossato abitualmente dagli adulti che vogliono vestire comodo, che non perdono tempo a pensare a cosa mettersi o che non hanno fatto bene i conti con la loro età. Quando Gap venne fondato, 50 anni fa, il suo spirito era molto diverso: nel momento di massimo successo incarnò lo stile “effortless cool”, essere alla moda senza sforzo, come ha raccontato Jonah Engel Bromwich sul New York Times.

Il primo negozio di Gap venne aperto nel 1969 a Ocean Avenue, non lontano dal campus universitario di San Francisco, da Donald e Doris Fisher, una coppia di 40 e 38 anni. Fisher, che lavorava nel settore immobiliare, non riusciva mai a trovare il paio di jeans Levi’s giusto e così ebbe l’idea di aprire un negozio che rivendesse soltanto alcuni modelli di Levi’s ma in tutti i colori e in tutte le taglie. Grazie all’amicizia con Wally Haas Jr, allora presidente di Levi Strauss & Co, riuscì a stringere un accordo con l’azienda e così il 21 agosto del 1969 aprì The Gap, un nome che alludeva all’obiettivo di colmare il divario tra quel che offrivano i negozi e i desideri dei più giovani.

Per attirarli, per i primi tre mesi The Gap vendette anche vinili; poi Fisher si accorse che «erano i pantaloni a far vendere i dischi, non il contrario». I vinili vennero abbandonati presto ma, spiega il New York Times, «una certa associazione con la controcultura continuò ad aiutare la catena per i successivi 25 anni», cosa che Gap cercò di sfruttare mentre si espandeva fino a imporsi come un marchio americano onnipresente nei centri commerciali.

La formula di The Gap ebbe successo e nel 1970 aprì un secondo negozio a San José, vicino ai magazzini di Levi’s da cui si riforniva. Nel 1973 i negozi erano 36 e le vendite arrivarono a 14,7 milioni di dollari dell’epoca, oltre 85 milioni di dollari attuali (circa 77 milioni di euro). Nel 1975 iniziò a vendere vestiti con un suo marchio e l’anno successivo si quotò in borsa. In quegli anni però ci fu un primo rallentamento: la richiesta di jeans iniziò a calare, mentre tornava di moda uno stile più formale.

Nel 1983 Fisher assunse Millard Drexler, un esperto di merchandising, per far fare un salto a Gap; Drexler andò oltre e realizzò «uno dei più straordinari cambiamenti nella storia della vendita al dettaglio», come scrisse il New York Times nel 1986. Drexler tolse importanza alle altre aziende rivendute da Gap e rafforzò il suo marchio interno, rinnovandolo sia nel prodotto che nell’immagine. «Scrissi su un pezzo di carta tutto quello che avrei voluto portare nell’azienda e quello divenne il mio lavoro a Gap», raccontò poi. «Volevo vestiti casual e alla moda a prezzi davvero buoni. […] Era tutta una questione di stile, che chiaramente Gap non aveva».

Così arrivarono le magliette con le tasche, i pantaloni color cachi, le felpe e le camicie dalle linee pulite. Nel 1991 i vestiti di Gap divennero i secondi più popolari in tutti gli Stati Uniti, dopo quelli di Levi’s. Anche le campagne pubblicitarie furono incisive: tra le più famose ci sono quelle con modelli e modelle vestiti in modo simile e con gli stessi colori, che cantano in coro Mellow Yellow e Dress You Up In My Love.

In altre pubblicità comparivano celebrità e artisti come Miles Davis, Marilyn Monroe, Jack Kerouac, Pablo Picasso ed Andy Warhol, per dare l’idea che i creativi e gli artisti indossassero Gap. Nel 1985 Mick Jagger vestì Gap al concerto del Live Aid e rimase nella memoria collettiva anche il maglioncino di Alicia Silverstone nel film Ragazze a Beverly Hills del 1995.

Negli anni Novanta Gap raggiunse l’apice, contribuendo a diffondere lo stile casual in tutte le circostanze, a partire dal lavoro. Nel 1987 vestì tutti gli impiegati della borsa di New York con pantaloni color cachi, che fino ad allora erano stati proibiti. Fu insieme il momento di massimo successo dell’azienda e la prova che ormai era diventata «rassicurante, conservatrice, e decisamente sfigata», come scrive il New York Times. Quello che aveva promosso, uno stile noncoformista e rilassato che si contrapponeva ai fronzoli e alle rigidità della precedente classe media, era diventato qualcosa a cui tutti potevano ormai conformarsi. «Il successo negli affari», scrive sempre il New York Times, «portò all’ubiquità culturale; l’ubiquità culturale fece nascere un disprezzo diffuso».

Nel 2002 Drexler venne licenziato, dopo 24 mesi consecutivi di calo nelle vendite e una serie di controversie con la famiglia Fisher; aveva portato l’azienda da 400 milioni di dollari a 14 miliardi (da 360 milioni a 13 miliardi di euro). Passò a J.Crew dove rimase fino al 2017; ora lavora da Alex Mill, una specie di Gap di lusso. Intanto nel 2009 Donald Fisher, il fondatore di Gap, morì.

Oggi Gap controlla cinque marchi, ha più di 135 mila impiegati e 3.727 negozi in tutto il mondo, di cui due terzi negli Stati Uniti; di recente ha aperto in Brasile e ha aumentato la presenza in Cina. Da anni però è in difficoltà, tra il calo delle vendite, la chiusura dei negozi e il licenziamento del personale. Subisce la concorrenza dei venditori online e di altri marchi di fast fashion (che vendono abbigliamento alla moda e dai prezzi molto bassi) come H&M e Forever 21, e di altre aziende considerate molto americane, come Abercrombie & Fitch e J. Crew.

Sta anche attraversando un grosso problema di identità: lo stile “effortless cool” che rappresentava negli anni Novanta oggi appartiene allo streetwear, il modo di vestire ispirato ai rapper e agli skater, e i suoi prodotti sono considerati noiosi, per niente accattivanti e sempre uguali. Non è riuscito a fare presa sui Millennial (i nati dalla metà degli anni Ottanta agli anni Novanta) e sugli adolescenti, che hanno gusti e desideri diversi da quelli a cui è associato Gap, e anche qualche tentativo di rinnovo è stato un fallimento. Per esempio nel 2010 introdusse un nuovo logo, che venne criticato dagli esperti di grafica e dagli appassionati del marchio; fu un tale fallimento che lo ritirò in meno di una settimana.

L’azienda potrebbe però essere aiutata dal revival degli anni Ottanta: per esempio alcune scene della terza stagione della serie tv Stranger Things, ambientata nel 1985, sono state girate nei suoi negozi e alcuni siti li hanno indicati come il posto dove comprare le salopette e le magliette indossate dai protagonisti.

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