“Il primo re”, per chi ci sta pensando

Il film – di Matteo Rovere e con Alessandro Borghi – racconta la storia di Romolo e Remo, è girato in protolatino, è violento, e forse sì, è il caso di vederlo

Il primo re, nei cinema da giovedì, è un film italiano sulla storia di Remo e di Romolo, che secondo la leggenda fondò Roma 753 anni prima della nascita di Cristo. L’ha diretto Matteo Rovere, il regista di Veloce come il vento, ci recitano Alessandro Borghi e Alessio Lapice ed è un film davvero insolito per gli standard italiani: perché i personaggi parlano il protolatino, una lingua arcaica che si pensa si parlasse prima del latino, e perché ha pochi dialoghi ed è piuttosto violento, con personaggi grezzi e sporchi. E poi perché è costato molto più di molti film italiani – si parla di 9 milioni di euro – e la produzione è durata 14 mesi.

La trama è essenziale e la casa di distribuzione, 01 Distribution, la presenta così: «Due fratelli, soli, nell’uno la forza dell’altro, in un mondo antico e ostile sfideranno il volere implacabile degli Dei. Dal loro sangue nascerà una città, Roma, il più grande impero che la Storia ricordi. Un legame fortissimo, destinato a diventare leggenda».

Il primo re parla del viaggio che Romolo e Remo fanno per attraversare il Tevere e fondare Roma. Solo che, lo sapete dalle elementari, succede che uno dei due uccida l’altro. Il film parla soprattutto del loro rapporto e di come a un certo punto i due fratelli inizino a vedere le cose in modo opposto e a comportarsi quindi di conseguenza. Il film si apre con una frase di William Somerset Maugham: «Un Dio che può essere compreso non è un Dio». La religione e il modo in cui i due fratelli ci si rapportano hanno quindi un ruolo centrale in Il primo re.

Il primo re sta piacendo ai critici italiani – alcuni dei quali hanno scritto che è un film così bello, e diverso dal solito, da non sembrare italiano – ma prima di arrivarci è il caso di raccontare come è stato pensato e realizzato.

La preparazione
Il mito di Romolo e Remo è, per l’appunto, un mito raccontato diversi secoli dopo da Livio, Plutarco e Ovidio, tra gli altri. Il regista Rovere – insieme con gli sceneggiatori Filippo Gravino e Francesca Manieri – si è quindi preso qualche libertà su cosa far succedere ai due fratelli. È invece stato molto attento a rispettare la lingua, le facce, i corpi e i movimenti che si pensa ci fossero nel 753 a.C, e nel mostrare nel modo giusto indumenti, attrezzi, paesaggi e accampamenti. Rovere ha detto: «Abbiamo lavorato con archeologi e storici, che insieme ai linguisti e ai semiologi hanno supportato il progetto con l’obiettivo comune di creare una narrazione moderna, composta però da elementi storicamente attendibili».

Per preparare il film la produzione italo-belga ha collaborato tra gli altri con Donatella Gentili, professoressa di Etruscologia e antichità dei popoli italici all’Università di Tor Vergata, e con altri suoi colleghi archeologi. Hanno spiegato di essere stati «chiamati a verificare gli aspetti storici inerenti la ricostruzione del Lazio di epoca preromana» e che «da un punto di vista accademico, mistificazione, disinformazione e mancanza di accuratezza sono caratteristiche riscontrabili in numerosi film storici, dove la spettacolarizzazione della narrazione prevale sulla realtà».

Quello che si vede in Il primo re è invece considerato attendibile. Gli archeologi hanno spiegato per esempio che: «Esatta è la riproduzione dell’equipaggiamento bellico utilizzato nelle scene di combattimento corpo a corpo. Tra i manufatti duplicati spiccano soprattutto la spada ad antenne e il cardiophylax, una corazza formata da una piastra metallica (dal profilo circolare o quadrato) che, legata con delle strisce di cuoio, era posta a protezione del cuore». Hanno spiegato che «un altro aspetto coerente dell’opera sta nell’aver scelto di raccontare, seguendo il mito, la realtà “caotica” e ferina che precede la fondazione dell’Urbe, dove la nascita di Roma si ascrive come un evento che stabilisce un ordine fondato sul rispetto delle leggi divine, poste alla base della costruzione politica del potere».

C’è poi la questione della lingua. I personaggi parlano – quando parlano – una lingua che qualcuno definisce protolatino e qualcun altro latino arcaico. Ci hanno lavorato alcuni semiologi dell’Università La Sapienza, partendo dalle poche fonti storiche a disposizione. 01 Distribution ha comunque spiegato che «non essendoci una stele di Rosetta del latino arcaico, dove mancavano i filamenti, è stato innestato l’indoeuropeo, una lingua di codice, mai realmente parlata in qualche regione ma una sorta di lingua di base dalla quale un po’ tutte quelle del ceppo indoeuropeo si sono dipanate». La lingua del film è quindi una lingua immaginaria, ricostruita sulla base dei pochi elementi disponibili sulla lingua che si pensa si parlasse allora in quei luoghi. Parlata da popoli che, non avendo una loro letteratura, non sono riuscita a farla arrivare fino a noi.

Le riprese
Il film è stato girato nei boschi e sui monti del Lazio e il giornalista Gabriele Niola – che visitò il set nell’ottobre 2017, quando ancora non si sapeva quasi nulla del film – scrisse su Bad Taste: «L’ottavo secolo avanti Cristo di Matteo Rovere si trovava poco fuori Roma, una distanza colmabile con un pulmino, poco meno di un’oretta fuori dal raccordo anulare in cui trovare un grande spiazzo, boschi e natura più o meno incontaminati. O almeno che lo sembrino».

Niola spiegò di aver visitato «una zona quasi paludosa, un grande spazio delimitato dall’inizio di un bosco prima del cui inizio è stato costruito un villaggetto primitivo di baracche e capanne». Disse anche che il set «non somigliava agli altri set» e che gli sembrava qualcosa a metà strada tra un accampamento dei Dothraki, uno dei popoli di Game of Thrones, e un luogo di La Guerra del Fuoco, un film di ambientazione preistorica girato nel 1981 da Jean-Jacques Annaud. Niola scrisse di esser rimasto sorpreso da «dimensioni e vastità dello sfondo» e  poi dalla «composizione umana» dei presenti, perché «contrariamente a qualsiasi set italiano infatti l’impressione era che ci fossero tanti truccatori quanti attori (ed era pieno di attori), che ognuno fosse continuamente intento a ritoccare, aggiustare, tenere fedele una ferita finta, un dente spaccato o uno straccio bagnato». Parlò anche di un cervo, fatto arrivare apposta dalla Romania perché di una razza simile a quella che si pensa ci fosse nel Lazio dell’ottavo secolo a.C.

Niola scrisse anche, e qui si torna al tema principale del film, che Rovere gli disse: «Lo sai chi è il villain [il cattivo] del film?» e che si rispose da solo dicendo: «Dio».

Gli attori
Se non siete grandissimi intenditori di cinema italiano, riconoscerete un solo attore nel film: Alessandro Borghi, che sul Fatto Quotidiano Davide Turrini ha definito «l’attore più performativo, talentuoso ed esportabile del cinema italiano». Di recente Borghi ha interpretato Stefano Cucchi e tra poco tornerà nella seconda stagione di Suburra e che, sempre secondo Turrini «riesce ad abitare il suo condottiero, spogliato di vesti e carico di barbara grinta, con una naturalezza allo stesso tempo spavalda e fragile che lascia il segno». Borghi interpreta Remo.

Romolo è invece Alessio Lapice, un attore di 27 anni considerato tra i più promettenti in Italia, e che potreste aver visto nella seconda stagione di Gomorra. In genere, quando si spendono 9 milioni di euro per un film così peculiare e di certo non «per tutta la famiglia», si cerca almeno di mettere molti volti noti per spingere gli spettatori a vederlo. Fatta eccezione per Borghi, invece, tutti i volti di Il primo re sono poco o per niente noti: e comunque, sporchi e barbuti, si farebbe fatica a riconoscerli.

A proposito delle riprese, Borghi ha detto al Corriere della Sera di aver girato «nudo, al freddo, di notte» e ha aggiunto: «Mangiavamo in mezzo al bosco senza lavarci per giorni: il primo albergo che ci ha ospitato ci ha chiesto il rimborso per le lenzuola, non scherzo. Ci ho messo un bel po’ a tornare alla civiltà». Anche lui ha poi parlato di religione e misticismo: «Remo si convince di essere l’incarnazione della divinità. Ma il suo individualismo fallisce, e vince chi sceglie di agire a favore della comunità».

La regia, la fotografia e la post-produzione
In Il primo re c’è una sola scena – subito, all’inizio – con evidenti effetti speciali. Per il resto è stato scelto di girare quasi tutto dal vero, con abbondante lavoro dei molti truccatori di cui parlava Niola.

Il film si fa poi notare per le coreografie delle scene di combattimento – ce ne sono diverse, con alcune cose che non vi piaceranno se non vi piace vedere sangue e sentire ossa rotte – e per la fotografia. Se ne è occupato Daniele Ciprì, che insieme a Rovere ha scelto di girare il film quasi solo con luce naturale: quindi quella del sole, dei falò o delle torce

Vedendo il film si nota anche come all’inizio ci siano molti paesaggi e diverse inquadratura in cui nello schermo ci stanno diverse persone. Poi, quando i protagonisti entrano nella foresta, il campo visivo tende a ridursi quasi sempre, anche perché le inquadrature sono spesso dedicate ai due fratelli.

Com’è?
I critici non sono stati particolarmente fantasiosi nel tirare in ballo riferimenti, parallelismi e paragoni. I film che saltano fuori quasi in ogni recensione sono: Apocalypto, il film di Mel Gibson parlato in maya yucateco, The Revenant –per le barbe lunghe, le facce sporche, le poche parole, la lotta per la sopravvivenza e gli istinti primordiali – e Valhalla Rising – Regno di sangue, diretto nel 2009 da Nicolas Winding Refn.

La maggior parte dei critici ha apprezzato l’azzardo di Rovere e di chi ha prodotto il film, elogiando le interpretazioni di Lapice e Borghi e la fotografia di Ciprì. Niola, in una sua recensione su Wired, ha apprezzato i dialoghi – «essenziali, mai tesi a spiegare quel che si può capire solo con le immagini» – e il modo in cui il film presenta e commenta «le credenze confuse, spaventate e dogmatiche dei personaggi». Ha fatto notare che Il primo re «non gioca nel campionato del cinema italiano, per ambizioni, stile e perizia tecnica può essere paragonato solo con quello internazionale» e ha scritto:

Rovere ha deciso di creare una strana antiepica. Scegliendo lo scontro tra Romolo e Remo e le due tribù fatte di pochi uomini, esalta il primitivismo delle loro vite, la precarietà, le dimensioni ridotte delle loro comunità ma proprio attraverso ciò racconta come merita la storia più epica che ci sia (la fondazione di Roma) senza enfasi, concentrandosi sul viaggio di due fratelli e alcuni seguaci verso un posto nuovo.

Ma c’è anche chi non ha gradito. Emiliano Morreale ha scritto su Repubblica che «è sul piano spettacolare che [il film] funziona meno: il procedere del gruppo attraverso i boschi è lento e faticoso, l’alternarsi di dialoghi e scene d’azione monotono. È come se la scoperta di un nuovo mondo visivo, mai raccontato dal cinema, avesse affascinato il regista fino a prendere spazio, diventando, da sfondo, il film stesso». È una critica simile a quella fatta da Federico Pontiggia, secondo il quale il film da un certo punto in poi «si rimpicciolisce, si ripete, e (si) stanca».

Quindi
Il primo re non è da vedere se la violenza su schermo proprio non la sopportate. Per il resto è davvero un film fuori dal comune: con aspetti tecnici notevoli e con temi che potrebbero darvi da pensare per un po’. Se poi al liceo avete studiato latino, persino il protolatino è – a tratti e con i sottotitoli – vagamente comprensibile. Deciderete poi da soli, una volta finito il film, chi è il primo re di Il primo re.