Il nuovo caso trivelle

Gli ambientalisti accusano il governo di aver autorizzato nuove concessioni petrolifere, ma Di Maio dice che è colpa dei governi precedenti

Piattaforma petrolifera Rospo Mare B nel mar Adriatico di proprietà Edison e Eni (ANSA/UFFICIO STAMPA GREEN PEACE)
Piattaforma petrolifera Rospo Mare B nel mar Adriatico di proprietà Edison e Eni (ANSA/UFFICIO STAMPA GREEN PEACE)

Negli ultimi giorni il governo, e in particolare il ministro dello Sviluppo economico Luigi Di Maio, sono stati accusati da numerosi ambientalisti per aver autorizzato esplorazioni petrolifere nel mare di fronte alle regioni Puglia, Basilicata e Calabria, tradendo le promesse fatte in campagna elettorale e negli anni precedenti. Il governo, tramite il ministro Di Maio e il ministro dell’Ambiente Sergio Costa, sostiene invece che le autorizzazioni fossero state concesse dal governo precedente e siano impossibili da bloccare. Inoltre, promettono che sarà presto approvata una legge che renderà difficili o impossibili nuove trivellazioni.

Il caso è iniziato nei primi giorni dell’anno, quando alcuni attivisti si sono accorti che sul Bollettino ufficiale per gli idrocarburi e le georisorse, una pubblicazione del ministero dello Sviluppo economico, erano comparsi una serie di decreti che autorizzavano l’esplorazione alla ricerca di idrocarburi in tre aree del Mar Ionio, oltre al permesso di “coltivare”, come si dice in gergo, una nuova concessione in provincia di Ravenna e la proroga di una seconda.

Secondo le accuse di attivisti come l’ex coordinatore dei Verdi Angelo Bonelli e il cofondatore del comitato No Triv, il costituzionalista Enzo Di Salvatore, autorizzando le concessioni il governo avrebbe tradito le sue promesse di bloccare le nuove trivellazioni, fatte nel corso della campagna elettorale e della scorsa legislatura. Il Movimento 5 Stelle, in particolare, si era molto impegnato su questo fronte e nel 2016 aveva sostenuto il cosiddetto referendum sulle trivelle (che però riguardava un altro aspetto della vicenda).

Il presidente della Puglia, Michele Emiliano, anche lui all’epoca un sostenitore del referendum, ha attaccato il governo sostenendo che dopo la vicenda del gasdotto TAP e dell’acciaieria ILVA (che il Movimento aveva promesso di fermare in campagna elettorale, salvo poi cambiare idea arrivato al governo), quella di questi giorni è la terza promessa fatta alla Puglia che il Movimento si sarebbe rimangiato. Emiliano ha annunciato che impugnerà i decreti del governo e cercherà di farli bloccare per via giudiziaria.

Attualmente in Italia ci sono circa 130 piattaforme offshore che estraggono petrolio e soprattutto gas. Di quest’ultimo, circa il 10 per cento del fabbisogno nazionale è di produzione italiana. Di questo 10 per cento, circa il 17 proviene da piattaforme offshore.

Il primo a rispondere alle accuse degli ambientalisti è stato il ministro dell’Ambiente Costa, seguito poi da Di Maio e dal suo sottosegretario Davide Crippa, tutti e tre del Movimento 5 Stelle. La loro tesi è che il governo non avesse scelta, poiché i percorsi che hanno portato alle nuove concessioni erano già stati avviati tra 2016 e 2017 dai governi precedenti. «Un funzionario del mio ministero ha semplicemente sancito quello che aveva deciso il vecchio governo», ha scritto Di Maio su Facebook. «Non poteva fare altrimenti, perché altrimenti avrebbe commesso un reato».

Sempre su Facebook il sottosegretario Crippa ha spiegato: «Avevamo davanti due alternative: bloccare con forte rischio di impugnazione e non ottenendo alcun risultato, oppure lavorare per una proposta normativa in modo tale da porre fine al proliferare di richieste di trivellare il nostro territorio o i nostri mari».

Secondo gli ambientalisti, il problema è proprio che nei suoi primi sei mesi di attività il governo non è riuscito ad approvare una “proposta normativa”, cioè una legge, in grado di fermare i percorsi di concessione avviati negli anni precedenti. In altre parole, è corretto dire che i dirigenti ministeriali attualmente non possono che firmare i provvedimenti di autorizzazione che hanno già iniziato il loro percorso, ma la situazione sarebbe stata diversa se nel frattempo il governo avesse modificato le leggi, cosa che non ha fatto.

«Politicamente è compito del governo o del Parlamento adottare un atto normativo per bloccare i procedimenti; amministrativamente è compito del dirigente competente firmare i permessi e le autorizzazioni», ha commentato Di Salvatore del comitato No Triv: «Di Maio in otto mesi non è stato in condizione di assumersi la responsabilità politica di una decisione legislativa sulle trivelle».

Non è chiaro come mai il governo e i gruppi parlamentari del Movimento 5 Stelle non siano ancora intervenuti su un tema che in passato avevano spesso definito cruciale. Di Maio sostiene che in realtà una proposta di legge sia attualmente allo studio: «Ci stiamo lavorando da 8 mesi e ci siamo quasi», ha scritto su Facebook: «Porteremo in Parlamento una norma che dichiara l’Air gun [uno dei sistemi utilizzati per effettuare esplorazioni nel sottosuolo] una pratica illegale e che renda sconveniente trivellare in mare e a terra».

Otto mesi, però, appaiono a molti un po’ troppi per elaborare una proposta di legge su questo tema. Ed è curioso inoltre che se effettivamente ci fosse una proposta allo studio, questa sia stata tenuta segreta per tutto questo tempo, senza che nemmeno gli attivisti venissero avvertiti. Soltanto in questi giorni Di Maio ha detto di volerli incontrare, ma diversi esponenti del movimento No Triv al momento sostengono di non essere interessati.

Secondo gli ambientalisti, le lentezze su questo fronte sono un ulteriore segno della sudditanza del Movimento 5 Stelle nei confronti della Lega e degli interessi industriali che la Lega rappresenterebbe. Fino a questo momento, comunque, nessun esponente di primo piano della Lega si è espresso sull’argomento.