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  • Mercoledì 7 novembre 2018

Perché le sanzioni statunitensi all’Iran riguardano anche noi

C'entra la loro extraterritorialità, che costringe un po' tutti a non sgarrare: e per le aziende europee è un problema

Il ministro degli Esteri iraniano Mohammad Javad Zarif (AP Photo/Virginia Mayo)
Il ministro degli Esteri iraniano Mohammad Javad Zarif (AP Photo/Virginia Mayo)

Lunedì sono entrate di nuovo in vigore tutte le sanzioni statunitensi all’Iran che erano state cancellate dopo la firma dell’accordo sul nucleare iraniano, nel 2015, incluse quelle dirette contro le esportazioni di petrolio e il sistema bancario iraniano. Nonostante siano sanzioni statunitensi, la loro reintroduzione sta creando grande allarme tra i governi e le aziende di diversi paesi europei, tra cui l’Italia. Il governo americano ha deciso di concedere a sette paesi la possibilità di continuare a importare quantità via via decrescenti di petrolio dall’Iran, per evitare che un eccessivo scossone sul mercato globale dell’energia possa provocare un aumento repentino del prezzo del barile: tra questi paesi c’è anche l’Italia, che con l’Iran ha un buon giro di affari. È però una deroga provvisoria: nel giro di qualche mese, anche questi paesi dovranno interrompere del tutto i loro rapporti con l’Iran.

Il motivo delle preoccupazioni europee risiede nella particolarità delle sanzioni statunitensi, che hanno una componente “extraterritoriale”: sono cioè diverse dalle sanzioni europee, che possono essere applicate solo alle aziende e ai cittadini europei.

Le sanzioni statunitensi sono fatte da due componenti. C’è una componente primaria che si applica a cittadini e aziende americane, a cui è imposto il divieto di commerciare e di utilizzare i conti di particolari individui del paese che si vuole colpire, in questo caso l’Iran. C’è poi una componente secondaria, extraterritoriale, che si rivolge a soggetti non americani: prevede che qualsiasi società, ovunque abbia la sede, debba rispettare le sanzioni americane quando vengono usati i dollari per compiere le transazioni – cioè quasi sempre – e quando le stesse aziende hanno succursali negli Stati Uniti o sono controllate da americani.

L’Unione Europea ha provato a bloccare gli effetti dell’extraterritorialità delle sanzioni statunitensi riattivando il cosiddetto “blocking statute”, una misura introdotta negli anni Novanta per tutelare i cittadini europei danneggiati dalle aziende che decidevano di rispettare le sanzioni extraterritoriali: in pratica funzionava che se un’azienda stava facendo affari in Iran non poteva smettere nel caso in cui la motivazione fosse stata legata agli effetti delle sanzioni americane. Il fatto è che da allora a oggi sono stati pochi i paesi europei ad avere adottato leggi nazionali per implementare la misura, e solo uno, l’Austria, ha iniziato un procedimento contro una società che aveva violato il “blocking statute” – procedimento peraltro poi abbandonato. Ad agosto, inoltre, è stato esteso il mandato della Banca europea per gli investimenti (BEI) e le è stato dato il potere di fornire garanzie sulle attività finanziarie con l’Iran, con l’obiettivo di sostenere gli investimenti europei nel paese. Come però ha scritto l’ISPI, (Istituto per gli studi di politica internazionale), sia il “blocking statute” sia l’estensione del mandato della BEI si sono rilevati «strumenti dall’alto valore politico ma dalla scarsa utilità all’atto pratico». Finora le grandi aziende europee con interessi globali hanno sempre deciso di rinunciare al mercato iraniano, quando messe di fronte all’eventualità di vedere i loro affari con gli Stati Uniti indeboliti dalle sanzioni.

Considerata la poca efficacia di queste due misure, alla fine di settembre i paesi europei hanno iniziato a negoziare tra loro per la creazione di uno “Speciale Purpose Vehicle” (SPV), ovvero un meccanismo legale che permettesse di facilitare i pagamenti da e verso l’Iran per sottrarre le aziende europee alle conseguenze dell’extraterritorialità delle sanzioni statunitensi.

In altre parole, scrive l’ISPI, «il meccanismo di funzionamento sarebbe quello della permuta: per esempio, l’invio di petrolio iraniano a società francesi, che permetterebbe a Teheran di accumulare credito da impiegare poi per pagare altre società europee per beni importati in Iran. In questo modo, non vi sarebbe scambio diretto di denaro né nel sistema finanziario SWIFT [la Società per le telecomunicazioni interbancarie che gestisce i bonifici internazionali, con sede a Bruxelles] né in banche iraniane colpite da sanzioni». Lo SPV, comunque, non è ancora stato istituito perché ci sono diversi nodi da sciogliere: per esempio la localizzazione della sua sede fisica – diversi paesi europei temono che ospitarlo sul proprio territorio possa provocare la reazione statunitense – e la sua data di attivazione. Secondo diversi esperti, comunque, è un meccanismo che potrebbe aiutare le piccole-medie imprese a eludere l’extraterritorialità delle sanzioni statunitensi, ma non sarebbe efficace verso le aziende più grandi, che hanno un qualche tipo di legame con l’economia americana.

È difficile prevedere quali saranno le conseguenze delle sanzioni statunitensi sulle aziende europee e sui loro investimenti in Iran.

Alcuni credono che le sanzioni statunitensi falliranno. L’analista iraniano Seyed Hossein Mousavian ha elencato su Reuters cinque ragioni per le quali la strategia di Trump verso l’Iran non porterà da nessuna parte. Mousavian ha scritto per esempio che l’UE ha cominciato da tempo a vedere l’extraterritorialità delle sanzioni statunitensi come una minaccia alla sua identità e indipendenza: il ministro francese delle Finanze, Bruno Le Maire, ha detto di recente che «il risultato della crisi con l’Iran sarà l’opportunità per l’Europa di avere proprie istituzioni finanziarie indipendenti, per essere in grado di commerciare con chi vogliamo». Se l’UE riuscirà a creare un proprio sistema finanziario separato dal dollaro statunitense, ha aggiunto Mousavian, gli stati europei potranno cominciare a usare l’euro come moneta nel commercio con l’Iran, diminuendo il dominio statunitense nei mercati mondiali: già oggi ci sono alcuni paesi che usano la propria valuta per fare affari con l’Iran (Russia, Cina, India e Turchia).

L’opinione più diffusa è che Trump non riuscirà attraverso le sanzioni a vincere la sua scommessa più importante, cioè provocare un “regime change” in Iran, un cambio di regime. Diversi analisti sostengono però che le conseguenze per le aziende europee saranno rilevanti, e che l’UE non sarà in grado di convincere le società con sede sul suo territorio a violare le sanzioni imposte dagli Stati Uniti. Alcuni funzionari europei citati dal New York Times hanno detto che realisticamente ci si aspetta che l’Europa mantenga tra il 20 e il 30 per cento dell’attuale volume di commercio con l’Iran. Stefano Stefanini, ex diplomatico italiano a Bruxelles, ha detto che che secondo i funzionari europei mantenere il 40 per cento dell’attuale commercio è una stima considerata ottimistica.