La lotta al cacao illegale

La deforestazione e il lavoro minorile stanno spingendo Unione Europea, paesi produttori e aziende a lavorare insieme

Un coltivatore di cacao in Congo, novembre 2016 (EDUARDO SOTERAS/AFP/Getty Images)
Un coltivatore di cacao in Congo, novembre 2016 (EDUARDO SOTERAS/AFP/Getty Images)

L’Unione Europea è il posto in cui viene consumata la maggior parte del cioccolato che viene prodotto nel mondo, ma da anni si parla della mancanza di cioccolato e del fatto che i coltivatori producono meno cacao di quello che il mondo mangia. Il problema ha a che fare con la siccità nell’Africa occidentale, con alcune malattie incurabili delle piante che potrebbero diffondersi sempre di più nel futuro prossimo, a causa del riscaldamento globale, e con la riduzione delle terre coltivabili a cacao. Ma la produzione di cacao è legata soprattutto a due altre questioni sulle quali ora l’Unione Europea, i paesi produttori e anche le aziende intendono intervenire in modo coordinato: la deforestazione e il lavoro minorile.

Il cacao viene coltivato prevalentemente in Ghana, Camerun, Nigeria, Madagascar e Costa d’Avorio: in Costa d’Avorio e in Ghana viene prodotto, in particolare, più del 70 per cento del cacao mondiale. La pianta di cacao è un albero sempreverde, alto dai cinque ai dieci metri, che soffre se riceve direttamente i raggi del sole e per questo viene coltivata all’ombra di alberi più alti: storicamente la pianta di cacao proviene dalla foresta pluviale, dove per millenni è cresciuta al riparo degli altri alberi. Le piante cominciano a fruttificare solo dal quinto anno, e per circa trent’anni. Ogni pianta produce uno/due chili di semi di cacao, che poi devono essere lavorati tramite fermentazione, essiccamento e macinazione.

L’anno scorso un’inchiesta pubblicata sul Guardian sulla Costa d’Avorio iniziava dicendo che l’industria mondiale della cioccolata stava producendo una deforestazione devastante nell’Africa occidentale. I commercianti locali che vendono alle multinazionali di cacao come Mars, Nestlé o Mondelēz acquistano dai piccoli agricoltori fave di cacao coltivate illegalmente all’interno delle aree protette o dei parchi nazionali del paese. Il prodotto illegale viene poi mescolato, nelle varie fasi della catena di approvvigionamento, con le fave di cacao “pulite”. Questo, dice il Guardian, significa che le barrette Mars o Milka, o i cioccolatini Ferrero Rocher, potrebbero essere contaminate da cacao “sporco”. E significa anche che i grandi marchi non possono essere certi del fatto che il loro prodotto non sia contaminato da cacao illegale.

Lavoratrici nelle piantagioni di cacao in Congo, novembre 2016 (EDUARDO SOTERAS/AFP/Getty Images)

Il Guardian ha raccontato che ci sono interi villaggi di agricoltori che occupano parchi nazionali presumibilmente protetti, che ci sono funzionari delle forze dell’ordine locali che regolarmente prendono delle tangenti per non denunciare le infrazioni, e che ci sono intermediari commerciali che riforniscono i grandi marchi i quali hanno a loro volta confermato la provenienza illegale di parte delle fave che vendono. La Costa d’Avorio e il Ghana, il primo e il secondo più grande produttore di cacao al mondo, sono anche i paesi che stanno risentendo maggiormente delle conseguenze di questo sistema e della deforestazione.

La Costa d’Avorio sta perdendo le sue foreste a un ritmo più veloce di qualsiasi altro paese africano: qui la copertura della foresta pluviale si è ridotta di oltre l’80 per cento dal 1960. Il gruppo ambientalista Mighty Earth ha pubblicato uno studio in cui si dice che se non si farà nulla, a fronte della crescente domanda globale di cioccolato, entro il 2030 non ci sarà più foresta. La beffa, scrive il Guardian, è che le persone che vivono in questi paesi sono così povere che non si potranno mai permettere di mangiare un Mars.

Alcuni degli agricoltori che coltivano il cacao nelle aree protette vivono lì da decenni, ma non sono loro che guadagnano dalla cioccolata: molti vivono in povertà, spesso sono sfruttati e sottopagati per il loro raccolto, lavorano in condizioni precarie ed è molto diffusa anche la manodopera infantile. L’Organizzazione internazionale del lavoro delle Nazioni Unite dice che 152 milioni di bambini tra i 5 e 17 anni sono coinvolti nel lavoro minorile in tutto il mondo, che il 71 per cento di loro è impegnato nel settore agricolo e che l’Africa ospita quasi i due terzi di tutti i bambini lavoratori.

Il cacao è uno dei prodotti agricoli più comuni prodotti con un’alta prevalenza di lavoro minorile. Secondo il Cocoa Barometer 2018, uno studio pubblicato ogni due anni da un consorzio globale di organizzazioni non governative e sindacati che lavorano sulla sostenibilità del cacao, ci sono 2,1 milioni di bambini che lavorano nelle piantagioni di cacao in Costa d’Avorio e in Ghana.

Un bambino di nove anni davanti alle fave di cacao, Costa d’Avorio, 1 dicembre 2017 (J’rgen B’tz/picture-alliance/dpa/AP Images)

Di tutti questi problemi si stanno occupando da tempo politici, paesi produttori di cacao e aziende, tre soggetti che avrebbero ora cominciato a lavorare insieme per impedire che il cacao cresciuto illegalmente sui terreni deforestati o quello coltivato dai bambini entri nelle catene di approvvigionamento. Nel 2017 è stato preso un impegno a livello globale tramite l’iniziativa Cocoa and Forests sostenuta dal World Resources Institute (WRI, organizzazione non governativa statunitense) e dall’Iniziativa per il commercio sostenibile (IDH). I governi del Ghana e della Costa d’Avorio sono stati i primi due a firmare e ad attuare l’accordo, poi ha aderito anche il governo della Colombia. Ma l’iniziativa non ha portato a molti cambiamenti concreti.

Qualche settimana fa il Ghana ha annunciato l’avvio di un nuovo e importante piano per porre fine alla deforestazione, mentre la Costa d’Avorio ha dichiarato lo scorso maggio che chiederà a donatori e ad aziende di contribuire al finanziamento della riforestazione. A giugno le aziende del cioccolato Cémoi, francese, e Godiva, belga, hanno pubblicato nuove politiche aziendali per contrastare la deforestazione, non solo per il cacao ma anche per le altre materie prime che usano; altre aziende ancora sembrano andare nella stessa direzione. A livello politico sono state infine avviate delle discussioni per fermare l’entrata sul mercato europeo del cacao prodotto danneggiando le foreste pluviali.

Lo scorso luglio, durante un’audizione al Parlamento europeo dedicata alla questione del lavoro minorile e della deforestazione nei settori del cacao e del caffè, Linda McAvan, presidente della commissione per lo Sviluppo, ha detto: «Noi europei, in quanto principali consumatori di cacao e di cioccolato, abbiamo una responsabilità su come funzionano le catene di approvvigionamento». Ha aggiunto che i deputati sono «molto preoccupati per le questioni relative al lavoro minorile, ma anche per l’impatto ambientale della deforestazione nelle foreste pluviali». Nel 2012 il Parlamento europeo aveva adottato una risoluzione che esortava la Commissione a esaminare delle misure per intervenire su questi problemi. Alla fine, però, la Commissione non aveva fatto nulla. Le parti interessate hanno ora chiesto di accelerare anche perché si avvicina la scadenza del 2025 per l’eliminazione del lavoro minorile contenuta nell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite per lo sviluppo sostenibile.

Alcuni esperti hanno suggerito che un buon modello di intervento per regolamentare l’industria del cacao potrebbe assomigliare a quello del FLEGT, acronimo di Forest Law Enforcement, Governance and Trade, una serie di normative attraverso le quali l’Unione Europea è intervenuta sul problema del taglio illegale di legname e del commercio dei prodotti ad esso associato. Il FLEGT venne approvato nel 2003 e prevedeva la firma di una serie di accordi con i paesi che avevano accettato di combattere il disboscamento illegale, in cambio di un accesso facilitato al mercato europeo. Per affrontare in modo efficace la questione, l’Unione Europea dovrebbe stabilire degli standard obbligatori, anche per le aziende che dovrebbero a quel punto imporre nuove politiche al loro interno.

Una lavoratrice di cacao in Congo, novembre 2016 (Getty Images)

Qualsiasi misura sarà decisa, dovrà anche affrontare la questione della povertà, dicono le organizzazioni non governative. Molti agricoltori dell’Africa occidentale vivono al di sotto della soglia di povertà, il che significa che spesso non riescono ad assumere dei lavoratori adulti e si affidano ai propri figli e ad altri bambini. Per quanto riguarda i contadini che vivono nelle aree protette, andrà poi affrontata la questione del loro reinsediamento e del necessario sostegno alla ricerca di un nuovo modo di guadagnarsi da vivere.