La corte d’assise di Caltanissetta ha depositato le motivazioni della sentenza sul depistaggio sulla strage di via D’Amelio

La scena dell'attentato in via D'Amelio in cui rimase ucciso il magistrato Paolo Borsellino nel 1992 (ANSA/ARCHIVIO)
La scena dell'attentato in via D'Amelio in cui rimase ucciso il magistrato Paolo Borsellino nel 1992 (ANSA/ARCHIVIO)

Sabato la corte d’assise di Caltanissetta ha depositato 1.865 pagine di motivazioni per la sentenza del processo Borsellino quater, che si era concluso nell’aprile del 2017: quello sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio del 19 luglio 1992, in cui fu ucciso il giudice Paolo Borsellino. Era una sentenza molto attesa non solo perché legata a uno dei più gravi fatti avvenuti in Italia negli ultimi trent’anni, ma anche perché la sentenza del processo aveva lasciato aperte alcune domande su come si svolsero i fatti.

Il processo Borsellino quater, iniziato nel 2012, era finito con la conferma di condanne per strage e per calunnia. Tra i condannati per quest’ultimo reato c’era Vincenzo Scarantino, l’uomo che nel 1992 si autoaccusò falsamente per aver partecipato all’organizzazione della strage: il processo stabilì che Scarantino era stato «indotto a commettere il reato» di calunnia da non meglio identificati «apparati di polizia». Le motivazioni della sentenza depositate sabato erano molto attese proprio per via degli aspetti non chiariti sulla responsabilità della polizia.

Le motivazioni confermano che alcuni investigatori guidati dall’allora capo della squadra mobile di Palermo Arnaldo La Barbera dissero a Scarantino cosa confessare, dopo aver ricevuto delle informazioni su come fu effettivamente organizzata la strage da «ulteriori fonti rimaste occulte»: furono queste informazioni a rendere credibili – anche se con molti dubbi di alcuni magistrati – le testimonianze di Scarantino e altri “falsi pentiti”. A proposito delle «fonti rimaste occulte», le motivazioni della sentenza non dicono altro ma tra le altre cose ricordano vari collegamenti tra le indagini sulle stragi e i servizi segreti civili (SISDE), con cui La Barbera aveva lavorato.

In particolare su La Barbera, morto il 12 dicembre 2002, le motivazioni della sentenza dicono che ebbe un «ruolo fondamentale nella costruzione delle false collaborazioni con la giustizia ed è stato altresì intensamente coinvolto nella sparizione dell’agenda rossa [di Paolo Borsellino, ndr], come è evidenziato dalla sua reazione, connotata da una inaudita aggressività, nei confronti di Lucia Borsellino, impegnata in una coraggiosa opera di ricerca della verità sulla morte del padre». E ancora, che ci fu «un proposito criminoso determinato essenzialmente dall’attività degli investigatori, che esercitarono in modo distorto i loro poteri». E che «le dichiarazioni di Vincenzo Scarantino sono state al centro di uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana».
Sulle responsabilità dei magistrati che fecero proprie quelle accuse e le sostennero a processo, le motivazioni aggiungono:

«Questo insieme di fattori avrebbe logicamente consigliato un atteggiamento di particolare cautela e rigore nella valutazione delle dichiarazioni dello Scarantino, con una minuziosa ricerca di tutti gli elementi di riscontro, positivi o negativi che fossero, secondo le migliori esperienze maturate nel contrasto alla criminalità organizzata incentrate su quello che veniva, giustamente, definito il metodo Falcone»

Le indagini sul depistaggio sulla strage di via D’Amelio comunque non sono finite: nei giorni scorsi il procuratore aggiunto di Caltanissetta Gabriele Paci e il sostituto Stefano Luciani hanno chiesto il rinvio a giudizio per tre poliziotti del gruppo di La Barbera: Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo.

Questa è la storia del depistaggio dall’inizio e più nel dettaglio:

La storia del depistaggio su Via D’Amelio