Chi è chi nel Partito Democratico

Nomi e facce di chi sta facendo le scelte importanti nel PD dopo la più grave delle sue sconfitte

La sala stampa del Partito Democratico. (ALBERTO PIZZOLI/AFP/Getty Images)
La sala stampa del Partito Democratico. (ALBERTO PIZZOLI/AFP/Getty Images)

Dalle elezioni del 4 marzo, che si sono concluse con la più grave sconfitta nella storia della sinistra italiana, il Partito Democratico sta vivendo uno dei suoi momenti di maggior travaglio. Al momento si trova senza un segretario con pieni poteri, diviso da scelte politiche differenti e da antichi rancori e più recenti antipatie personali. Domani i dirigenti cercheranno di fare almeno un po’ di chiarezza sul futuro a breve termine del partito, nel corso della direzione nazionale, il principale organo politico del partito. L’argomento principale dovrebbe essere la trattativa con il Movimento 5 Stelle, anche se negli ultimi giorni la discussione sembra essersi nuovamente spostata su temi di gestione interna.

Nel frattempo, cerchiamo di capire meglio chi sono i principali attori nel PD e quali sono i loro ruoli ed obiettivi. La figura più visibile da quando Renzi si è dimesso è quella del suo vicesegretario Maurizio Martina (qui avevamo raccontato la sua storia). Martina è un esponente della sinistra del partito e Renzi lo candidò a suo vicesegretario al congresso del 2017. Dalle dimissioni di Renzi lo scorso 4 marzo, i rapporti tra i due sono notevolmente peggiorati e Martina viene sempre più spesso indicato come uno dei leader più ostili a Renzi. Pochi giorni fa, Martina ha minacciato di dimettersi a causa delle interferenze di Renzi nella gestione del partito.

Un’altra figura importante è quella di Matteo Orfini, presidente del Partito, il cui ruolo è convocare e presiedere le riunioni degli organi del partito, come la direzione nazionale e l’assemblea nazionale. Anche se Orfini non viene definito un “renziano” (proviene da una carriera e da una storia politica molto differente), ha condiviso tutte le principali scelte politiche dell’ex segretario. Il tesoriere del partito, l’avvocato fiorentino Francesco Bonifazi, è invece considerato un renziano vero e proprio.

Le ultime due figure con un incarico importante a livello nazionale sono i capigruppi di Camera e Senato, Andrea Marcucci e Graziano Delrio. Il loro ruolo è quello di fungere da organizzatori e coordinatori dei gruppi parlamentari del PD. Si assicurano che i parlamentari siano presenti alle votazioni e che sappiano qual è l’indirizzo del partito. Entrambi sono stati eletti dopo le elezioni del 4 marzo, su proposta e con i voti dei parlamentari renziani, che hanno dimostrato di essere ancora una maggioranza coesa nonostante le dimissioni di Renzi. Delrio, emiliano, è considerato una figura trasversale e dialogante nel partito. Marcucci, toscano, è invece molto vicino a Renzi.

Per via dei loro incarichi ufficiali, Martina, Orfini, Marcucci e Delrio hanno formato la delegazione del PD che ha partecipato alle consultazioni del presidente della Repubblica.

Da sinistra a destra: il capogruppo al Senato Graziano Delrio, il segretario Maurizio Martina, il presidente Matteo Orfini e il capogruppo alla Camera Andrea Marcucci (ANSA)

Anche se non ricoprono incarichi di partito, ci sono altri dirigenti molto attivi e importanti. Il principale è il ministro della giustizia Andrea Orlando, uno dei due sfidanti di Renzi al congresso del 2017, dove raccolse circa il 20 per cento dei voti. Per questo ruolo, Orlando viene spesso indicato come il “leader della minoranza”, anche se in realtà la “minoranza” del partito non risponde tutta a lui. L’altro sfidante al congresso 2017 è stato Michele Emiliano, presidente della regione Puglia, che al congresso raccolse circa il 10 per cento dei voti e che ha attaccato molto spesso Renzi, anche durante l’ultima campagna elettorale. Un altro importante leader è il ministro della Cultura Dario Franceschini, per lungo tempo uno dei principali alleati di Renzi. I rapporti tra i due però si sono guastati da tempo. Oggi Franceschini è un sostenitore dell’accordo con il Movimento 5 Stelle, a cui Renzi è fermamente contrario, oltre ad aver criticato Renzi in diverse occasioni per le sue scelte nella gestione del partito.

Dario Franceschini (a sinistra) e Andrea Orlando (ANSA)

Il principale leader del PD rimane però Matteo Renzi, nonostante abbia perso le elezioni e si sia dimesso da segretario. È stato lui a comporre le liste dei candidati alle elezioni e, per questa ragione, si ritiene che eserciti un discreto controllo sui parlamentari PD (e lo ha dimostrato in occasione dell’elezione dei capigruppo). Renzi probabilmente è sostenuto anche dalla maggioranza dell’assemblea nazionale, l’organo che dovrà decidere sul prossimo segretario del partito (qui trovate spiegato tutto il processo) e che è stato eletto in proporzione ai risultati ottenuti dai candidati alla segreteria. Renzi all’epoca raccolse circa il 70 per cento dei voti, e quindi elesse un’uguale percentuale di delegati all’assemblea nazionale.

L’unico organo in cui potrebbe mancare una maggioranza a sostegno della linea del segretario Renzi è proprio la direzione nazionale, quella che si dovrebbe riunire domani. La direzione nazionale è l’organo che serve a dare indirizzi politici al partito e, solitamente, appoggia sempre la linea del segretario in carica. Quello attuale però è un momento particolare: non c’è un segretario e Renzi è un leader per molti aspetti indebolito. Molti temevano che la direzione di domani sarebbe diventata il luogo di una “spaccatura” o di una “conta” come si dice in gergo: uno scontro tra renziani e il resto del partito le cui conseguenze avrebbero potuto essere molto gravi per il partito.

Il rischio però è stato evitato. Mercoledì, il deputato renziano Lorenzo Guerini ha presentato un documento che è stato firmato da 120 dei 205 componenti della direzione e quindi eviterà che la direzione si divida votando su due mozioni diverse. Nel documento sono elencati una serie di punti su cui i firmatari sono concordi, il più importante dei quali è l’apertura alla trattativa con tutte le forze politiche, ma la indisponibilità ad appoggiare qualsiasi governo guidato da Matteo Salvini o da Luigi Di Maio.