Perché le borse crollano

In poche parole: perché l'economia va bene e le banche centrali potrebbero alzare i tassi di interesse più rapidamente

(Spencer Platt/Getty Images)
(Spencer Platt/Getty Images)

Lunedì è stata la giornata peggiore degli ultimi dieci anni per le borse statunitensi. Il Dow Jones, il principale indice della borsa di New York, ha perso il 4,6 per cento; lo Standard & Poor’s 500, l’indice che raggruppa le cinquecento società americane a più alta capitalizzazione, ha perso altri quattro punti percentuali. Martedì sono state in perdita anche tutte le borse asiatiche e quelle europee hanno aperto al ribasso, così come hanno fatto quelle americane nel primo pomeriggio. Questa giornata di perdite arriva dopo un anno di crescita quasi ininterrotta: nel 2017 il Dow Jones era cresciuto del 25 per cento, raggiungendo livelli mai visti in precedenza.

L’ondata di vendite che ha colpito le borse non è stata causata da cattive notizie economiche che hanno preoccupato i mercati, ma dal loro opposto. Tutte le principali economie del mondo stanno crescendo contemporaneamente e le prospettive sono buone per l’immediato futuro. In risposta a questo miglioramento le banche centrali, soprattutto la Banca Centrale Americana (FED), stanno riducendo la quantità di moneta che immettono nell’economia. La FED pianifica di alzare i tassi di interesse per tre volte nel corso del 2018. Questo significa che ci sarà meno denaro in circolazione e che quindi gli investitori ritireranno alcuni investimenti rischiosi, per esempio in azioni di società, per metterli in prodotti più sicuri come le obbligazioni. Gli effetti saranno un calo dei valori azionari delle principali borse (qui lo spiega anche CNN Money).

Questo processo di innalzamento dei tassi di interesse era annunciato da tempo e ampiamente previsto: da quasi un decennio i tassi di interesse praticati dalle banche centrali sono bassissimi e l’economia mondiale è stata letteralmente inondata di denaro nel tentativo di rimetterla in moto dopo l’ultima recessione. Nonostante il denaro “stampato”, l’inflazione è sempre rimasta bassa. Nessuno però vuole rischiare ancora a lungo. Adesso che la recessione sembra essere del tutto finita e che l’inflazione sta mostrando i primi segni di crescita, i banchieri centrali hanno iniziato a ridurre i loro stimoli monetari, così da evitare che la situazione finisca fuori controllo. In questa fase però qualsiasi piccolo imprevisto può rendere nervosi gli investitori sui mercati.

Lunedì è stato pubblicato l’ultimo rapporto sugli stipendi dei lavoratori americani, da cui emerge che le retribuzioni dei lavoratori americani sono cresciute più in fretta del previsto. Il rapporto ha probabilmente contribuito al crollo di ieri: se gli stipendi si alzano vuol dire che anche l’inflazione farà lo stesso, aumentando la pressione sulla banca centrale affinché riduca più in fretta le sue attività straordinarie sul mercato. Questo spaventa gli investitori che hanno accelerato la loro fuga contribuendo al crollo della borsa. Come ha notato ironicamente il New York Times, il fatto che ottimi dati sul lavoro abbiano causato un crollo in borsa dimostra che «non sempre quello che è buono per l’economia è buono anche per i mercati».

Secondo il New York Times, sullo sfondo delle preoccupazioni di alcuni operatori potrebbero esserci anche le scelte economiche del presidente Donald Trump che poche settimane fa è riuscito a far approvare una riforma fiscale che introduce importanti riduzioni fiscali per le imprese. La riforma è un grosso stimolo fiscale in un’economia già sommersa dal denaro stampato dalla banca centrale. Inizialmente era stata accolta benissimo dai mercati, ma ora il suo impatto rischia di produrre nuova inflazione, che a sua volta potrebbe spingere la banca centrale ad alzare i tassi di interesse più in fretta di quanto previsto, spaventando ulteriormente i mercati.