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  • Venerdì 2 febbraio 2018

Gli sport invernali hanno un futuro?

L'innalzamento delle temperature e il cambiamento demografico rischiano di ridurre sia il numero di località sciistiche sia quello dei praticanti: anzi, sta già accadendo

Un cannone sparaneve a Kitzbuehel, in Austria (Roland Schlager/Getty Images)
Un cannone sparaneve a Kitzbuehel, in Austria (Roland Schlager/Getty Images)

Per risolvere il problema della mancanza di neve in vista delle Olimpiadi invernali del 2022, il Comitato olimpico cinese sta costruendo piste da sci in alcune località fino a 200 chilometri da Pechino – città sede della manifestazione – e accumulerà centinaia di migliaia di tonnellate d’acqua con cui creare milioni di metri cubi di neve artificiale, nonostante le risorse idriche della capitale cinese destino preoccupazione da tempo. Le difficoltà nel predisporre le piste olimpiche per gli sport invernali non sono una novità: a Sochi, la città russa che ospitò quelle del 2014, per assicurarsi neve sufficiente a garantire il normale svolgimento delle gare venne prodotto in tutto mezzo milione di metri cubi di neve artificiale. Ai Giochi di Vancouver del 2010 la neve artificiale fu distribuita anche utilizzando degli elicotteri.

Con il passare degli anni, organizzare le Olimpiadi invernali sta diventando sempre più difficile. A differenza dei Giochi estivi, dove il problema principale sono i costi elevati per la costruzione di strutture imponenti ma poco utilizzate al termine delle gare, le edizioni invernali dei Giochi sono tutto sommato meno costose. I problemi principali, tuttavia, sono l’innalzamento delle temperature e il cambiamento demografico, che stanno riducendo sia il numero di località montane in grado di ospitare manifestazioni di tale portata sia il numero di praticanti a livello mondiale.

Negli ultimi anni le notizie sul clima sono state tutt’altro che incoraggianti. Il 2016 è stato l’anno più caldo mai registrato e lo scorso inverno al Polo Nord le temperature massime sono state per giorni ben al di sopra della media stagionale. Gli effetti del riscaldamento globale sono tangibili da tempo, e fra tutti quelli già visibili, l’aumento delle temperature nelle zone montuose avvenuto nell’ultimo secolo ha tardato l’arrivo delle nevicate e ne ha ridotto la durata. Lo stesso innalzamento delle temperature fa sì che le località sciistiche situate ad altitudini meno elevate debbano spendere sempre più soldi per attrezzare le proprie piste, in mancanza di nevicate abbondanti e temperature adeguate.

Secondo un recente studio citato in un articolo dell’Economist, nell’arco alpino sono circa 300 le località sciistiche vulnerabili al cambiamento climatico. Il 70 per cento di queste non riuscirebbe a operare con la sola neve naturale se la temperatura media invernale dovesse alzarsi di 2 gradi centigradi; la percentuale salirebbe a 90 con temperature in media più calde di 4 gradi. Con la neve artificiale invece, le percentuali scenderebbero al 15 e al 60 per cento.

A Kitzbühel per esempio, una delle località sciistiche più note del Tirolo, dove ogni anno si tiene la gara di sci più attesa del “circo bianco”, da alcuni anni le autorità locali conservano la neve caduta in inverno per riutilizzarla in autunno, in modo da poter iniziare la stagione a metà ottobre: anni fa era possibile senza sforzi del genere, ma ora l’altitudine di Kitzbühel – 800 metri sul livello del mare – rende la località austriaca una delle più vulnerabili al cambiamento climatico di tutto l’arco alpino. Questo problema esiste da tempo anche nelle Dolomiti. Fra il 1988 e il 1990 due stagioni invernali senza neve a sufficienza furono un mezzo disastro per le località sciistiche locali. In seguito a quelle due annate, le autorità montane decisero di investire in macchinari per la produzione di ghiaccio e neve. Tuttora nelle Dolomiti sono in azione alcuni dei più grossi e potenti innevatori al mondo.

La stazione sciistica di Santa Cristina Valgardena nel dicembre del 2015, quando solo la neve artificiale rese possibile l’imbiancamento delle piste (OLIVIER MORIN/AFP/Getty Images)

Un’altra preoccupazione per l’industria degli sport invernali deriva dal fatto che secondo alcuni studi lo sci e lo snowboard, dopo aver raggiunto il loro picco di popolarità nei primi anni Duemila, hanno sempre meno praticanti, principalmente per questioni demografiche. I praticanti con redditi più bassi – che sono la maggior parte – sono diminuiti sensibilmente. Inoltre manca un ricambio generazionale: i praticanti con più di 50 anni stanno lentamente diminuendo e non sono adeguatamente rimpiazzati dalle nuove generazioni.

Si stima che il numero di sciatori quotidiani nelle principali località sciistiche del mondo sia diminuito dai circa 350 milioni registrati tra il 2008 e il 2009 ai circa 320 milioni nelle ultime due stagioni. La diminuzione dei praticanti riguarda Stati Uniti, Canada, Francia, Svizzera e Italia, e sarebbe potuta essere ancora più ampia se non fosse stato per la crescita che sta avvenendo in Cina, dove gli sciatori sono quasi triplicati nello stesso periodo: si calcolano circa 11 milioni di praticanti in più.

In Europa e in Nord America le località sciistiche situate ad altitudini più elevate e con buone riserve di acqua ed elettricità possono ancora prosperare, dato che sono ancora al riparo dai problemi climatici e che i visitatori che le frequentano sono mediamente più ricchi delle altre: il numero di praticanti tra le persone con redditi e patrimoni più elevati non sta scendendo in maniera così preoccupante. Il problema è rappresentato dalle stazioni sciistiche più piccole, quelle con meno strutture e minori risorse, frequentate prevalentemente da visitatori giornalieri e dai costi più abbordabili: nel Nord America questo tipo di stazioni stanno chiudendo una dopo l’altra.