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  • Mercoledì 31 gennaio 2018

Il discorso normale di Trump

Nel suo primo discorso sullo stato dell'unione – pronunciato leggendo, senza divagare – ha parlato della necessità di trovare compromessi e stare uniti per il bene del paese

Un momento del discorso sullo stato dell'Unione di Donald Trump in Campidoglio, Washington DC, 30 gennaio 2018
(Win McNamee/Getty Images)
Un momento del discorso sullo stato dell'Unione di Donald Trump in Campidoglio, Washington DC, 30 gennaio 2018 (Win McNamee/Getty Images)

Quando in Italia era la notte tra martedì e mercoledì, il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha pronunciato al Congresso il suo primo discorso sullo stato dell’unione, il discorso annuale con cui – secondo la Costituzione – il presidente aggiorna i legislatori e i cittadini sulla situazione della nazione (visto che si era appena insediato, quello dell’anno scorso tecnicamente non era un discorso sullo stato dell’unione). Come sempre accade quando Trump si limita a leggere dal gobbo elettronico, senza divagare o andare a braccio, è stato un discorso normale: che ognuno può trovare più o meno condivisibile sulla base delle proprie idee ma che non sovverte standard e prassi democratiche vecchie secoli, né fa urlare i suoi avversari di indignazione.

«Niente urla, niente gesti grandiosi, niente citazioni del ‘terrorismo islamico’ o della ‘rete di banditi selvaggi’. Il Trump di stasera ha parlato semplicemente di ‘ISIS’, non ha mai citato i suoi avversari né i suoi critici. L’uomo arrivato al potere con una retorica aggressiva sembrava fosse stato sedato da un caldo bicchiere di latte», ha scritto il Washington Post. «Trump ha parlato senza staccarsi dal gobbo, restando insolitamente fedele al testo, limitandosi a promuovere i suoi obiettivi e parlare ambiziosamente della “forza della nostra famiglia americana”», ha scritto il New York Times.

È stato il discorso più lungo da quello di Bill Clinton nel 2000 ed è stato tutto incentrato sul tema della forza. Le proposte concrete di Trump al Congresso sono state soprattutto due: una sull’immigrazione e una sulle infrastrutture. Entrambe sono state presentate con evidenti appelli ai Democratici perché collaborassero con i Repubblicani, appelli che sono stati accolti in aula con scetticismo e incredulità. Anche lo scorso anno Trump al Congresso aveva detto che «il tempo per le sciocche litigate è finito», ma non appena si era staccato dal gobbo elettronico era tornato tutto come prima.

Trump ha chiesto un investimento sulle infrastrutture da 1,5 migliaia di miliardi di dollari: un grosso aumento della spesa pubblica che sarebbe visto con qualche fastidio dai Repubblicani più estremisti, ma su cui Trump spera di convincere almeno parte dei Democratici, senza i quali al Senato è difficile arrivare all’approvazione di quasi qualsiasi cosa. Sull’immigrazione, invece, ha proposto un “equo compromesso” che preveda la possibilità di dare la cittadinanza ai cosiddetti dreamers, cioè gli immigrati irregolari arrivati negli Stati Uniti da bambini e per ora protetti dalle espulsioni, ma anche la costruzione del muro e il rafforzamento delle pattuglie al confine. Parlando dell’immigrazione, Trump ha citato le storie di alcune persone aggredite o uccise da immigrati irregolari, alludendo alla possibilità che tra i dreamers ci siano narcotrafficanti e membri di gang criminali e facendo così infuriare i Democratici.

Fedele al suo slogan “America First”, la politica estera è stata quasi assente dal discorso. Trump ne ha parlato soltanto nella parte finale, annunciando tra le altre cose di aver firmato un ordine per tenere aperta la controversa base militare e prigione di Guantanamo, che il suo predecessore Barack Obama aveva tentato a lungo e con fatica di chiudere – non ci riuscì a causa dei Repubblicani – e poi di svuotare dei suoi prigionieri. Trump ha detto che l’ISIS è stato sostanzialmente cacciato da Iraq e Siria e poi, parlando della Corea del Nord, ha aggiunto che «l’esperienza ci insegna che gli atteggiamenti compiacenti e le concessioni incentivano le loro aggressioni e provocazioni. Non ripeterò gli errori delle passate amministrazioni, che ci hanno messo in questa posizione pericolosa» e ha ricordato Otto Warmbier, lo studente americano morto dopo essere stato arrestato in Corea del Nord, i cui genitori erano in aula.

«Il mio dovere, il sacro dovere di ogni persona eletta in quest’aula, è difendere gli americani: proteggere la loro sicurezza, le loro famiglie, le loro comunità e il loro diritto al sogno americano. Perché anche gli americani sono dreamers», ha detto Trump in uno dei passaggi centrali del suo discorso. Entusiasta per i “successi straordinari” ottenuti dalla sua amministrazione durante quest’anno, e sempre restando alla larga dalla sua retorica nazionalista più forte e dagli attacchi ai suoi avversari, Trump ha chiesto ai parlamentari di «mettere da parte le differenze e cercare un terreno comune per servire il paese», perché «questo è davvero il nostro nuovo momento americano. Non c’è mai stato un momento migliore per vivere il sogno americano. Lo stato dell’unione è forte perché le persone americane sono forti».

Non c’è giornale o analista statunitense che dopo il discorso non abbia espresso dubbi sulla sua sincerità e sulla praticabilità politica della strada unificante e moderata indicata da Trump, visto che non c’è stata alcuna svolta nel modo ostile con cui la Casa Bianca concretamente ha trattato con i Democratici, ed è azzardato pensare che le cose possano cambiare ora, con l’inizio della campagna elettorale in vista delle elezioni di metà mandato. Anche perché, pur restando sobrio nei toni e in gran parte dei contenuti, Trump anche stanotte ha detto un numero rilevante di bugie: ha detto che gli Stati Uniti sono un paese esportatore di energia (falso), che gli stipendi hanno finalmente ripreso a salire (falso, salivano già), ha detto che la sua riforma fiscale ha portato ai tagli più radicali di sempre (falso) e a «migliaia e migliaia di dollari di bonus per ogni lavoratore» (falso).

«Il presidente Trump ha deciso di darsi una calmata», ha scritto Politico, «ma tutti si chiedono quanto durerà. L’uomo che si insediò parlando tetramente del “massacro americano” ha tentato stanotte di offrire l’immagine di un’America unita come “una squadra, un popolo, una famiglia” per convincere un’opinione pubblica scettica che lui è il leader stabile che può unire una nazione divisa». Questo cambio di tono riflette il cambiamento delle condizioni politiche a Washington: «senza l’aiuto dei Democratici, i Repubblicani non hanno grandi speranze di ottenere vittorie legislative, e molti nel suo partito sono preoccupati in vista delle elezioni di metà mandato».

Il “sopravvissuto designato” di stanotte è stato Sonny Perdue, segretario dell’Agricoltura. Come sanno gli spettatori di Designated Survivorma i lettori del Post lo sanno da prima – ogni volta che un presidente si rivolge al Congresso in seduta plenaria c’è un solo membro del governo che non partecipa all’evento: se ne sta da un’altra parte, in una località sconosciuta e sicura, pronto a guidare la nazione se dovesse accadere il patatrac. Che patatrac? Il punto è che durante il discorso tutti i deputati, tutti i senatori, tutti i membri del governo, i giudici della Corte Suprema, il presidente e il vicepresidente degli Stati Uniti sono riuniti nello stesso posto. Per quanto il Congresso sia blindato e super protetto, si tratta di una circostanza piuttosto pericolosa: in caso di attentato, esplosione, bombardamento, aereo di linea dirottato, eccetera, gli Stati Uniti si troverebbero decapitati, privi di qualsiasi forma di autorità nazionale riconosciuta.

La pratica è stata istituita durante la Guerra fredda, nel timore di un attacco nucleare. Durante il discorso sullo stato dell’unione, al designated survivor viene assegnato un servizio di protezione speculare e identico a quello solitamente riservato ai presidenti, compreso un accompagnatore che porta con sé la famosa valigetta con i codici nucleari. In momenti particolarmente complicati della storia degli Stati Uniti, il designated survivor è stato addirittura il vicepresidente, così da assicurare al paese una leadership forte in caso di catastrofe: nel 2001, durante il discorso del presidente Bush in seguito agli attentati dell’11 settembre, il designated survivor fu il vice presidente Dick Cheney.