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  • Sabato 20 gennaio 2018

Il governo degli Stati Uniti “chiude”

Per la prima volta dal 2013 Democratici e Repubblicani non si sono messi d'accordo su una legge per finanziare le attività federali, ed è cominciato lo “shutdown”

Il Campidoglio, la sede del Congresso a Washington D.C. (AP Photo/J. Scott Applewhite)
Il Campidoglio, la sede del Congresso a Washington D.C. (AP Photo/J. Scott Applewhite)

Dalla mezzanotte e un minuto ora locale, quando in Italia erano le 6:01, il governo degli Stati Uniti ha ufficialmente “chiuso”: è cominciato cioè il cosiddetto “shutdown”, che prevede che tutte le attività non essenziali del governo siano interrotte. Lo shutdown è stata la conseguenza del mancato accordo tra Democratici e Repubblicani del Senato per una legge che prorogasse i finanziamenti alle attività federali, che hanno così raggiunto la scadenza di ieri sera senza che fosse stato trovato un modo per prorogarli. Lo scontro si è sviluppato principalmente sul tema dell’immigrazione.

Da sabato mattina, quindi, tutti i dipendenti statali “non essenziali” saranno congedati dal lavoro, senza paga (potrebbero riceverla quando lo shutdown finirà); i dipendenti “essenziali” continueranno invece a lavorare, ma saranno pagati solo in seguito. A giudicare chi siano i dipendenti di una categoria e dell’altra sono i dirigenti delle varie agenzie federali, che hanno già ricevuto istruzioni ufficiose di compilare i loro elenchi. L’ultima volta che il governo statunitense entrò in shutdown fu nel 2013, durante il secondo mandato di Barack Obama.

Cos’è successo ieri sera
La premessa da avere chiara è che tutte le attività del governo federale statunitense richiedono dei fondi garantiti ogni anno dal Congresso con una legge. Il budget del governo si è già esaurito diverse settimane fa, ma in mancanza di un accordo politico si è andati avanti con delle estensioni temporanee, fino ad arrivare alla scadenza di stanotte. Giovedì la Camera aveva approvato una legge di finanziamento della durata di un mese, che i Democratici però hanno da subito detto di non volere approvare perché non soddisfaceva le loro richieste. Lo shutdown era quindi previsto, ma si pensava potesse essere evitato all’ultimo con un accordo tra Democratici e Repubblicani per finanziare il governo per un breve periodo – da qualche giorno a un mese – e avere altro tempo per raggiungere un accordo definitivo. Ma quest’ipotesi è sfumata nella notte: il leader della minoranza Democratica al Senato Chuck Schumer ha avuto ieri sera un ultimo colloquio con il presidente Donald Trump, senza risultati.

I Repubblicani avevano bisogno di 60 voti per far passare la legge, ma hanno votato favorevolmente solo 50: cinque senatori Democratici di stati conservatori hanno votato a favore, cinque Repubblicani hanno votato contro (ma il leader della maggioranza Mitch McConnel ha dovuto farlo perché lo prevede la procedura). All’ultimo minuto McConnel ha proposto una nuova legge per finanziare il governo per tre settimane, invece che per un mese, ma non è servito.

Sarah Huckabee Sanders, portavoce della Casa Bianca, ha detto che «i senatori Democratici hanno la responsabilità dello “Shutdown di Schumer”. Stasera hanno messo la politica davanti alla sicurezza nazionale, alle famiglie dei soldati e alla nostra abilità di servire tutti gli americani». Lo shutdown infatti è una procedura che viene frequentemente minacciata, ma che si raggiunge raramente per le sue gravi conseguenze sull’economia del paese: i Democratici hanno quindi deciso di rischiare politicamente, prendendo una decisione che potenzialmente potrebbe far perdere loro molti consensi, e per giunta sulla base di un tema divisivo come quello dell’immigrazione. Ovviamente, i Democratici accusano la Casa Bianca di essere stata responsabile dello shutdown.

Il leader della maggioranza Repubblicana al Senato Mitch McConnell prima dello shutdown. ((Tasos Katopodis/Getty Images)

Su cosa litigavano Democratici e Repubblicani
Il principale problema della legge che avrebbe finanziato il governo solo fino alla metà di febbraio è che non conteneva una qualche forma di accordo condiviso dai Democratici sull’immigrazione. Lo scorso settembre, infatti, il presidente Donald Trump decise di interrompere un importante programma dell’amministrazione Obama che aveva reso immuni dalle espulsioni gli immigrati irregolari arrivati negli Stati Uniti da bambini, portati dai propri genitori, e aveva dato loro la possibilità di ottenere permessi di lavoro. Il programma si chiama DACA, da “Deferred Action for Childhood Arrivals”. La decisione, molto importante e criticata, prevedeva comunque che il Congresso trovasse il modo di approvare delle leggi che tutelassero in qualche modo queste persone, in modo che non venissero deportate in massa.

I Democratici chiedevano che qualsiasi legge che finanziasse il governo, come quella votata ieri al Senato, prevedesse una soluzione al problema delle persone che perderanno la protezione. I Repubblicani chiedevano invece che un’eventuale legge del genere fosse affiancata da misure più severe sull’immigrazione irregolare, e da fondi per costruire il muro al confine tra Stati Uniti e Messico promesso da Trump. Una commissione bipartisan di Democratici e Repubblicani aveva provato a mettere giù un accordo condiviso tra le due forze politiche: lo aveva trovato la scorsa settimana, ma era stato respinto proprio dalla Casa Bianca.

Il deputato Democratico Luis Gutierrez parla a una manifestazione in famore dei diritti dei “dreamers” fuori dal Congresso. (Tasos Katopodis/Getty Images)

Quello del DACA non era comunque l’unico punto della legge criticato dai Democratici, che si lamentavano del fatto che non prevedesse finanziamenti a lungo termine per molte cose di cui si era discusso per mesi, dai fondi per Porto Rico a quelli per i community health center, centri sanitari che si occupano soprattutto di persone a basso reddito, a quelli per la lotta contro la dipendenza da oppioidi. I Repubblicani avevano provato a mettere sotto pressione i Democratici includendo un finanziamento per sei anni del Children’s Health Insurance Program (CHIP), un piano di copertura per le spese sanitarie di 9 milioni di bambini che gode di un consenso bipartisan ed è scaduto mesi fa. I Repubblicani più conservatori alla Camera si erano opposti all’estensione del finanziamento ma dopo un intervento di Trump avevano ceduto: non è bastato però a convincere i Democratici, anche perché c’è consenso sul fatto che servirebbe un finanziamento più a lungo termine.

E ora?
Già giovedì sera i funzionari dell’ufficio della Casa Bianca per il Management e il Budget avevano dato istruzioni ai dirigenti delle agenzie federali per notificare informalmente i propri dirigenti su chi sarebbe stato congedato dal lavoro e chi invece avrebbe dovuto presentarsi in ufficio, sabato o dopo il weekend. Le prime notifiche ufficiali dovrebbero arrivare sabato mattina.

Non è prestabilito quali siano da intendersi come “servizi non essenziali”, perché lo decidono di volta in volta i dirigenti delle varie agenzie federali statunitensi: si sa però che in ogni caso un eventuale shutdown non riguarderà l’esercito, la polizia, gli agenti di sicurezza degli aeroporti, gli ispettori sanitari, le guardie di confine e molti altri incarichi nelle forze dell’ordine. Oltre un milione di soldati e forze dell’ordine continuerà a lavorare senza interruzioni, così come i dipendenti di quei Dipartimenti che non ricevano finanziamenti annualmente: possono usare i propri fondi per rimanere aperti, e anzi sono incoraggiati a farlo.

Ci sono buone probabilità invece che chiudano servizi come parchi nazionali e musei, e che parte dello staff di servizi giudicati essenziali siano comunque congedati dal lavoro (cioè non potranno presentarsi), con la conseguenza di un rallentamento generale nell’erogazione dei servizi. Gli stipendi di chi lavora sarebbero pagati solo alla fine dello shutdown. Chi viene congedato, invece, rischia di perdere completamente la paga per i giorni non lavorati.

Steny Hoyer, whip della minoranza Democratica alla Camera, ha dettoPolitico che «se bisogna trovare una buona notizia, almeno è un weekend. Se ci muoviamo domani, come penso possiamo fare, e troviamo dei compromessi, allora potremo approvare qualcosa prima della fine del weekend e le conseguenze [dello shutdown] sarebbero minime».

Come andò l’ultima volta
Quando successe nel 2013, lo shutdown fu innescato dall’opposizione della Camera controllata dai Repubblicani nei confronti di una legge di bilancio che avrebbe finanziato parte di Obamacare, la riforma sanitaria fatta approvare dall’amministrazione Obama nel 2010. Nei sedici giorni che durò si arrivò a un massimo di 850mila dipendenti statali contemporaneamente non pagati, per un totale di 6,6 milioni di giorni di lavoro persi.