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  • Venerdì 19 gennaio 2018

Il governo degli Stati Uniti rischia di chiudere

Senza un accordo al Congresso entro mezzanotte, da domani le attività "non essenziali" finanziate dallo stato rischiano di essere interrotte

Il Campidoglio, la sede del Congresso a Washington D.C. (Win McNamee/Getty Images)
Il Campidoglio, la sede del Congresso a Washington D.C. (Win McNamee/Getty Images)

Il governo degli Stati Uniti potrebbe chiudere dalla mezzanotte di venerdì, quando in Italia saranno le sei della mattina, se il Senato non approverà una legge che continui a finanziare le sue spese: comincerebbe quindi il cosiddetto “shutdown”, che prevede che tutte le attività non essenziali del governo siano interrotte. L’ultima volta successe nel 2013, e durò 16 giorni: chiusero parchi nazionali, musei e molti altri servizi, mentre altri rallentarono e a centinaia di migliaia di dipendenti pubblici fu chiesto di restare a casa o lavorare gratis. Anche questa volta, il problema è che i Democratici e i Repubblicani non si mettono d’accordo su cosa includere nella legge che finanzia il governo.

Contesto: tutte le attività del governo federale statunitense richiedono dei fondi garantiti ogni anno dal Congresso con una legge. Il budget del governo si è già esaurito diverse settimane fa, ma in mancanza di un accordo politico si è andati avanti con delle estensioni temporanee, fino ad arrivare alla scadenza di stanotte. Per approvare il nuovo budget servono una maggioranza semplice alla Camera ma 60 voti su 100 al Senato: i Repubblicani hanno la maggioranza in entrambi i rami del Congresso ma non hanno da soli 60 voti al Senato, quindi hanno la necessità di trovare un accordo con i Democratici. E il problema è che quell’accordo è complicatissimo da trovare, nelle attuali situazioni politiche.

Ieri la Camera dei Rappresentanti, controllata dai Repubblicani con un’ampia maggioranza, ha approvato la legge che prevede i finanziamenti per mantenere il governo aperto per altre quattro settimane (un’altra estensione breve, in attesa di trovare un accordo annuale). Ma la legge non è per niente condivisa dai Democratici, che non vogliono più inconcludenti estensioni temporanee e al Senato hanno i numeri per poterla respingere: ai Repubblicani servono infatti 60 voti, ma con il senatore John McCain assente per motivi di salute e uno dei due seggi dell’Alabama recentemente passato ai Democratici, ne hanno solo 50, 51 se si conta il vicepresidente Pence. Insomma, ai Repubblicani servono i voti di nove Democratici, e oggi non ce li hanno.

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Il principale problema della legge, che finanzierebbe il governo solo fino alla metà di febbraio, è che non contiene una qualche forma di accordo condiviso dai Democratici sull’immigrazione. Lo scorso settembre, infatti, il presidente Donald Trump decise di interrompere un importante programma dell’amministrazione Obama che aveva reso immuni dalle espulsioni gli immigrati irregolari arrivati negli Stati Uniti da bambini, portati dai propri genitori, e aveva dato loro la possibilità di ottenere permessi di lavoro. Il programma si chiama DACA, da “Deferred Action for Childhood Arrivals”. La decisione, molto importante e criticata, prevedeva comunque che il Congresso trovasse il modo di approvare delle leggi che tutelassero in qualche modo queste persone, in modo che non venissero deportate in massa.

I Democratici chiedono che qualsiasi legge che finanzi il governo, come quella che deve passare al Senato venerdì, preveda una soluzione al problema delle persone che perderanno la protezione. I Repubblicani chiedono invece che un’eventuale legge del genere sia affiancata da misure più severe sull’immigrazione irregolare, e da fondi per costruire il muro al confine tra Stati Uniti e Messico promesso da Trump. Una commissione bipartisan di Democratici e Repubblicani ha provato a mettere giù un accordo condiviso tra le due forze politiche: lo ha trovato la scorsa settimana, ma è stato respinto proprio dalla Casa Bianca.

Il leader della maggioranza al Senato, il Repubblicano Mitch McConnell, dopo che la Camera ha approvato la legge per finanziare il governo fino alla metà di febbraio. (Alex Wong/Getty Images)

Quello del DACA non è comunque l’unico punto della legge criticato dai Democratici, che si lamentano del fatto che la legge non preveda finanziamenti a lungo termine per molte cose di cui si è discusso per mesi, dai fondi per Porto Rico a quelli per i community health center, centri sanitari che si occupano soprattutto di persone a basso reddito. Dietro queste discussioni su temi più puntuali, comunque, c’è un più ampio dibattito tra Repubblicani e Democratici sull’innalzamento dei limiti di spesa annui per i vari settori finanziati dal governo. È una questione complessa e che ha le sue basi nell’amministrazione Obama, ma in breve: Democratici e Repubblicani devono mettersi d’accordo per alzare i limiti ed evitare un meccanismo che prevede tagli omogenei e automatici a tutti i settori (tranne alcuni più sensibili, legati alla sanità). Ma i Democratici vogliono maggiori spese nei settori non militari, mentre i Repubblicani vogliono alzare le spese proprio in quelli.

I Repubblicani hanno provato a mettere sotto pressione i Democratici includendo un finanziamento per sei anni del Children’s Health Insurance Program (CHIP), un piano di copertura per le spese sanitarie di 9 milioni di bambini che gode di un consenso bipartisan ed è scaduto mesi fa. I Repubblicani più conservatori alla Camera si erano opposti all’estensione del finanziamento ma dopo un intervento di Trump hanno ceduto: non è bastato però a convincere i Democratici, anche perché c’è consenso sul fatto che servirebbe un finanziamento più a lungo termine.

Al momento ci sono sostanzialmente tre possibilità: quella che farebbe uscire meglio Repubblicani e Democratici, ma allo stesso tempo più improbabile, è che si trovi un accordo sull’immigrazione entro venerdì a mezzanotte, e che sia approvato dal Senato evitando lo shutdown. Le trattative sono però ormai sbandate, e gli osservatori considerano sfumata questa possibilità. Il secondo scenario, quello più grave, è che la legge rimanga com’è e che sia respinta al Senato, dando inizio allo shutdown.

La terza eventualità, che sta acquistando consensi nelle ultime ore, è che Democratici e Repubblicani approvino una legge provvisoria che finanzi il governo per pochi altri giorni (fino ai primi giorni della prossima settimana), prorogando la scadenza per continuare a trattare e trovare un accordo sull’immigrazione. Questa ipotesi è preferita da chi, tra i Repubblicani e i Democratici, ritiene che tra un mese non ci saranno più probabilità di trovare un accordo, semmai di meno.

Quando successe nel 2013, lo shutdown fu innescato dall’opposizione della Camera controllata dai Repubblicani nei confronti di una legge di bilancio che avrebbe finanziato parte di Obamacare, la riforma sanitaria fatta approvare dall’amministrazione Obama nel 2010. Nei sedici giorni che durò si arrivò a un massimo di 850mila dipendenti statali contemporaneamente non pagati, per un totale di 6,6 milioni di giorni di lavoro persi.

Non è prestabilito quali siano da intendersi come “servizi non essenziali”, perché lo decidono di volta in volta i dirigenti delle varie agenzie federali statunitensi: si sa però che in ogni caso un eventuale shutdown non riguarderà l’esercito, la polizia, gli agenti di sicurezza degli aeroporti, gli ispettori sanitari, le guardie di confine e molti altri incarichi nelle forze dell’ordine. Ci sono buone probabilità invece che chiudano servizi come parchi nazionali e musei, e che parte dello staff di servizi giudicati essenziali siano comunque congedati dal lavoro (cioè non potranno presentarsi), con la conseguenza di un rallentamento generale nell’erogazione dei servizi. Gli stipendi di chi lavora sarebbero pagati solo alla fine dello shutdown. Chi viene congedato, invece, rischia di perdere completamente la paga per i giorni non lavorati.