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  • Martedì 9 gennaio 2018

#WoYeShi, il #MeToo della Cina

È cominciato nelle università, ma fatica a trovare spazio per colpa della censura del Partito comunista e dei soliti stereotipi: ma qualcosa si sta muovendo

Zheng Xi con un cartello contro le molestie sessuali.
Zheng Xi con un cartello contro le molestie sessuali.

I racconti di molte attrici di Hollywood sulle molestie sessuali compiute dall’ex produttore cinematografico Harvey Weinstein hanno avuto vari tipi di conseguenze in tutto il mondo. Tra le altre cose, hanno spinto moltissime donne a partecipare alle campagne sui social network raccontando le loro storie di abusi subiti. Negli Stati Uniti e poi anche altrove è stato usato l’hashtag #MeToo, in Italia #quellavoltache, in Francia #balancetonporc. Ma mentre “l’effetto Weinstein” ha avuto conseguenze in America, in Europa e in alcune parti dell’Asia, in Cina la situazione è diversa, nonostante qualcosa si stia muovendo anche lì.

Leta Hong Fincher, esperta del movimento femminista cinese, ha spiegato al Guardian che «alcune donne sono uscite allo scoperto, ma ciò che colpisce è il fatto che siano così poche». Secondo Hong Fincher, la causa principale è la rigida censura del Partito comunista cinese: la leadership quasi interamente maschile del partito si sente minacciata dall’idea di poter essere colpita da una campagna sulle molestie avviata dalle donne. La studiosa crede dunque che le autorità abbiano ordinato ai media controllati dal partito di evitare una copertura approfondita della questione. «Le attiviste femministe sono politicamente ben organizzate, ci sono militanti in diverse città, si coordinano tra loro e hanno un grande appeal: tutti questi fattori fanno sì che le autorità cinesi le considerino una minaccia politica. […] Guardate cosa sta succedendo negli Stati Uniti: con la campagna #MeToo, si stanno abbattendo uomini potenti praticamente ogni giorno (…) si può solo immaginare quanto tutto questo sia terrificante per i leader del Partito comunista cinese».

Con fatica e a rilento, comunque, stanno cominciando a emergere testimonianze anche in Cina, un paese dove, secondo uno studio citato dal Guardian, l’80 per cento delle donne ha subìto nel corso della propria vita molestie sessuali. Se in Occidente il movimento #MeToo è iniziato dal mondo del cinema per poi diffondersi in altri ambienti, come lo sport e la politica, in Cina è iniziato nelle università. La femminista cinese Xiao Meili ha spiegato che i giovani che usano Internet sono studenti universitari o hanno comunque ricevuto un’istruzione superiore. Tutti hanno sentito parlare di molestie sessuali e da un sondaggio risulta che quasi il 70 per cento degli iscritti sia stato molestato sessualmente. Ma più della metà di loro ha scelto di non parlare: «In Cina, l’asimmetria di potere tra professori e studenti è terribile». Molte studentesse sono esposte a molestie verbali e fisiche o a quotidiane richieste di cenare e bere con i professori di sesso maschile, spiega un’altra attivista, Li Sipan. Se non lo facessero, la loro carriera accademica sarebbe messa seriamente a rischio.

Il caso da cui in Cina è iniziato il #MeToo ha a che fare con Luo Qianqian, una ricercatrice che attualmente vive negli Stati Uniti, che il primo gennaio ha pubblicato su Weibo, l’equivalente cinese di Twitter, il racconto delle molestie subite dodici anni prima dal suo professore di informatica Chen Xiaowu: «Ha tentato di saltarmi addosso in una stanza con la porta chiusa». Luo ha spiegato che Chen l’ha poi lasciata andare perché lei continuava a piangere, ma «i seguenti anni della mia vita, quando lui era il mio supervisore al dottorato, sono stati un incubo». Luo ha concluso il suo post dicendo che non si deve avere paura ed esortando le altre donne a parlare usando l’hashtag #我也是 (#WoYeShi, cioè #MeToo). Il suo post ha ottenuto più di tre milioni di visualizzazioni in un solo giorno. Prima di Luo, altre donne laureate in altre università avevano rivelato la loro esperienza di molestie sessuali o di aggressioni subite dai professori, ma avevano scelto di rimanere anonime.

Huang Xueqin, una giornalista che vive a Guangzhou e che fu aggredita, nel 2012, sta conducendo un’indagine nel suo settore sulle cattive condotte sessuali. Huang ha spiegato che il suo attivismo è stato in parte guidato dal senso di colpa per non aver denunciato in precedenza i responsabili delle molestie subite sul posto di lavoro: «Non volevo essere una piantagrane, ma il silenzio è uguale alla connivenza». Ispirata dalle “Silence Breakers”, le donne che hanno cominciato a denunciare le molestie sessuali e che sono state scelte dalla rivista statunitense Time come “Persona dell’anno” per il 2017, Zheng Xi, una studentessa di Hangzhou, ha infine avviato una campagna pubblica contro le molestie sessuali.

Hong Fincher pensa però che sfidare il partito sia rischioso e che se una donna dovesse ricevere particolare attenzione sui social andrebbe incontro a conseguenze serie. In Cina gli arresti di oppositori e dissidenti politici avvengono di continuo. Il presidente Xi Jinping, nel suo precedente mandato, aveva promesso politiche tese a una maggiore trasparenza, ma nei fatti il suo governo ha mantenuto l’opacità dei precedenti. Nel 2015 cinque attiviste femministe sono state arrestate dopo aver organizzato la distribuzione di adesivi contro le molestie sessuali sui mezzi pubblici.

Feng Yuan, che fa parte di una organizzazione non governativa che si oppone alla violenza di genere a Pechino, ha fatto notare che Luo ha pianificato le sue azioni con attenzione. Prima di portare il caso davanti all’università, aveva contattato altre donne che erano state molestate sessualmente da quello stesso professore e aveva raccolto molte prove. Aveva poi atteso che fosse l’università a decidere la sospensione e l’indagine contro il professore, e solo a quel punto aveva deciso di rendere pubblica tutta la storia. Per altre donne seguire l’esempio di Luo potrebbe non essere semplice e il suo caso rischia di restare un’eccezione.

La Cina non ha una legge sugli abusi sessuali e anche qui è molto radicato lo stereotipo per cui la colpa di una molestia ricade sulla donna che l’ha subita. Sui media le molestie sessuali vengono spesso soprannominate la “regola nascosta”: il sottotesto, come ha spiegato la femminista Li Sipan a BBC, non è dunque che le donne vengano aggredite senza il loro consenso, ma che siano loro stesse ad accettare volontariamente una molestia per ottenere futuri favori. Il discorso è lo stesso di quello che c’è spesso qui da noi, in un contesto ancor più difficoltoso: le molestie non vengono prese seriamente e le donne non parlano per timore di ritorsioni, nel peggiore dei casi, e di non essere credute, nel migliore.