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  • Martedì 2 gennaio 2018

L’Iran si sta prendendo il Medio Oriente

Gli iraniani sembrano essere arrivati ovunque – Siria, Iraq, Libano, Afghanistan – grazie soprattutto all'uso di milizie e alla "esportazione del caos"

di Elena Zacchetti – @elenazacchetti

Un miliziano sciita a Mosul, in Iraq, il 21 settembre 2017 (Oliver Weiken/picture-alliance/dpa/AP Images
Un miliziano sciita a Mosul, in Iraq, il 21 settembre 2017 (Oliver Weiken/picture-alliance/dpa/AP Images

Da mesi è sempre più raro trovare una grossa notizia sul Medio Oriente che non coinvolga in qualche maniera l’Iran. Si è parlato di Iran in riferimento alle sconfitte dello Stato Islamico in Iraq e in Siria, alla resistenza dei ribelli Houthi nella guerra in Yemen, alla crisi che ha portato all’isolamento regionale del Qatar, all’instabilità dell’Afghanistan, alla ricerca di nuove alleanze da parte del gruppo palestinese Hamas e alla recente crisi politica in Libano dovuta alle dimissioni poi sospese del primo ministro Saad Hariri. L’Iran sembra essere ovunque. Non è solo un’impressione di chi legge o una fissazione della stampa internazionale. Negli ultimi anni l’Iran ha raggiunto un livello di influenza fuori dai propri confini a cui aspirava dal 1979, anno della Rivoluzione khomeinista, ma che finora era sempre rimasto un’ambizione frustrata.

L’Iran non è di certo il paese con l’esercito più forte del Medio Oriente, e in più è a stragrande maggioranza sciita, uno dei due principali orientamenti dell’Islam ma decisamente quello minoritario (la maggior parte dei musulmani del Medio Oriente, e del mondo, è sunnita). È anche stato sottoposto per oltre 10 anni a sanzioni internazionali molto dure – solo lo scorso anno in parte eliminate grazie a uno storico accordo – che hanno indebolito l’economia iraniana, contribuendo probabilmente alla nascita delle proteste cominciate negli ultimi giorni di dicembre a Mashhad e diffuse rapidamente in altre decine di città iraniane.

Quindi, la domanda che ci si fa è: come ha fatto l’Iran?

L’uso dei “proxy”: prima Hezbollah, poi tutti gli altri
La prima cosa da tenere a mente è che l’Iran è stato uno dei paesi del Medio Oriente che più ha beneficiato degli interventi militari statunitensi dell’inizio degli anni Duemila. Nel 2001 i soldati statunitensi furono mandati in Afghanistan a combattere il regime sunnita dei talebani; due anni dopo furono impiegati in Iraq per destituire il governo di Saddam Hussein, anch’esso sunnita. Iraq e Afghanistan sono due paesi confinanti con l’Iran, e talebani e Hussein erano due grandi nemici degli iraniani: in un certo senso gli Stati Uniti hanno fatto un gran favore all’Iran, che dal 1979 era governato da un regime nemico degli stessi americani.

Uno dei metodi che l’Iran usò di più negli anni successivi per aumentare la sua influenza nei paesi vicini – obiettivo che dopo gli interventi americani era diventato possibile – fu la creazione di milizie sciite, piccoli eserciti di uomini addestrati per combattere contro i nemici (che in quegli anni erano per lo più i soldati americani). Il modello da cui basarsi era soprattutto quello di Hezbollah, la milizia sciita libanese creata dall’Iran nel 1982 in risposta all’occupazione israeliana di una parte del Libano. Ma non solo: nel 1982 – tre anni dopo la rivoluzione khomeinista – l’Iran aveva cominciato a impiegare diverse milizie sciite in Iraq per combattere il regime di Saddam Hussein. Aveva creato per esempio l’Organizzazione Badr, un gruppo di 10mila uomini che tra le altre cose doveva prendere parte alla guerra che si stava combattendo tra Iran e Iraq e che sarebbe finita solo nel 1988.

L’Organizzazione Badr e altre milizie simili divennero presto una parte importante della storia dell’Iraq. Prima furono usate per combattere e uccidere migliaia di soldati americani che si erano fermati in Iraq dopo la guerra. Poi, a partire dal 2014, sono state impiegate per combattere lo Stato Islamico in Iraq, gruppo sunnita nemico dell’Iran. Il governo iraniano ha fatto una cosa simile anche in Siria. Fin dalle prime fasi della guerra civile, iniziata nel 2011 tra regime e ribelli siriani, l’Iran ha mandato centinaia di consiglieri militari e ha convinto la milizia Hezbollah a intervenire in difesa del presidente Bashar al Assad, alleato degli iraniani. Ha mandato le milizie sciite irachene a combattere al di là del confine e promosso la creazione di nuovi gruppi fatti da pakistani e afghani sciiti reclutati come mercenari.

L’importanza delle milizie sciite nell’ottenere la sconfitta dell’ISIS in Iraq e la sopravvivenza del regime di Assad in Siria ha permesso all’Iran si ottenere quello che voleva: contare molto di più.

Ma in Iran non c’era un governo moderato?
L’aggressiva politica estera dell’Iran degli ultimi anni sembra essere in contraddizione con le posizioni del governo iraniano guidato da Hassan Rouhani, considerato un moderato. Molti speravano che Rouhani, grande sostenitore dell’accordo sul nucleare, potesse ridurre l’influenza in Iran degli ultraconservatori, cioè quella fazione politica molto potente che fa riferimento alla Guida suprema Ali Khamenei (la principale autorità politica e religiosa dell’Iran) e che alimenta buona parte della sua retorica con l’odio nei confronti degli Stati Uniti. Le cose però non sono andate proprio così e negli ultimi anni, ha scritto il New York Times, «la classe media iraniana si è risvegliata in un impeto di fervore nazionalistico».

Il video di “Energy Hasteei”, una canzone del rapper iraniano Amir Tataloo cantata a bordo della fregata iraniana Damavand, impiegata nel mar Caspio. Prima di diventare un cantante simbolo del regime, Tataloo era stato arrestato due volte, accusato di promuovere “valori occidentali, non iraniani e immorali”. Di recente il regime iraniano ha capito che per ottenere nuovi consensi tra i giovani doveva cambiare il modo di fare propaganda e puntare su una retorica più nazionalistica e basata meno sul discorso religioso.

L’aggressività sostenuta dagli ultraconservatori è quindi diventata sempre più accettata anche dai moderati di Rouhani e dai riformisti, per due ragioni.

Primo, perché gli Stati Uniti nel frattempo avevano cambiato presidente. Mentre Barack Obama aveva fatto del dialogo con l’Iran uno dei punti più importanti della sua politica estera, Donald Trump ha rimesso in discussione tutto e ha cominciato ad attaccare il governo iraniano dal giorno uno della sua presidenza. In Iran l’idea prevalente è che Trump abbia mostrato la “vera faccia dell’America”, mentre i buoni rapporti con Obama erano solo un’illusione.

Secondo, ci sono stati grossi cambiamenti in Arabia Saudita, acerrimo nemico dell’Iran a cui gli Stati Uniti con Trump si sono riavvicinati molto: da mesi il regime saudita è dominato da Mohammed bin Salman, giovane e ambizioso principe ereditario che sta promuovendo grandi riforme. Tra le altre cose, bin Salman ha deciso di rispondere frontalmente all’aggressività iraniana, innescando una grande escalation di tensione: per esempio è stato lui a spingere per l’intervento saudita in Yemen contro i ribelli Houthi, che fino ad oggi non è stato risolutivo e ha contribuito a creare una delle peggiori crisi umanitarie al mondo degli ultimi anni; ed è stato sempre lui a promuovere l’isolamento regionale del Qatar, paese arabo considerato troppo vicino all’Iran, provocando grande incertezza in tutta la regione.

Uno dei motivi della crescita del nazionalismo in Iran è stato l’avvicinamento di Trump all’Arabia Saudita, come dimostrò il noto episodio con la sfera magica avvenuto a Riyadh

Ai fattori Trump e Arabia Saudita, va aggiunto un forte senso di orgoglio nazionale emerso negli ultimi mesi e dovuto alle vittorie delle milizie sciite contro lo Stato Islamico in Iraq. Il risultato è stato uno spostamento dell’Iran su posizioni più intransigenti: gli ultraconservatori iraniani, che avevano perso parecchia forza durante gli anni di Obama, hanno recuperato consensi, mentre i riformisti, storici nemici degli ultraconservatori, hanno cominciato a sostenere che in effetti degli Stati Uniti non ci si può fidare. Il New York Times ha sintetizzato questo concetto così:

«In breve, sembra che Trump e i sauditi abbiano aiutato il governo iraniano a raggiungere quello che non si era riuscito ad ottenere con anni di repressione: un ampio sostegno alla visione più intransigente secondo la quale non ci si può fidare degli Stati Uniti e di Riyadh e che l’Iran è ora uno stato più forte e stabile capace di guardare negli occhi i suoi nemici»

E perché nessuno l’ha fermato, l’Iran?
Negli ultimi anni l’Iran non ha sfruttato solo una serie di circostanze a lui favorevoli, come per esempio la guerra contro lo Stato Islamico, ma ha potuto anche contare sulla generale passività dei suoi nemici. Gli Stati Uniti di Barack Obama, per esempio, saranno ricordati per il loro progressivo ritiro militare dal Medio Oriente e la loro riluttanza nel farsi coinvolgere in questioni non direttamente legate alla sicurezza nazionale americana. Obama, per esempio, si rifiutò di impiegare le forze di terra per combattere lo Stato Islamico, considerandola una mossa troppo rischiosa, e si limitò a mandare consiglieri militari e a usare gli attacchi aerei. Allo stesso tempo l’Iran beneficiò anche della politica estera saudita prima dell’ascesa di Mohammed bin Salman, che era molto passiva e non cercava lo scontro frontale.

Più di recente le cose sono cominciate a cambiare. In Iraq e in Siria, lo Stato Islamico è stato praticamente del tutto sconfitto e gli Stati Uniti hanno cominciato a concentrarsi su altre priorità. L’amministrazione Trump ha fatto sapere che il prossimo obiettivo potrebbe essere quello di bloccare il tentativo dell’Iran di creare un corridoio che vada dal territorio iraniano fino al Libano, passando per l’Iraq e per la Siria. Questa è un’eventualità che preoccupa soprattutto Israele, alleato degli Stati Uniti, che teme che il corridoio possa essere usato dagli iraniani per mandare armi e uomini a Hezbollah, in Libano. Negli ultimi anni il governo israeliano ha già ordinato più di 100 attacchi aerei in Siria per colpire quelli che diceva essere convogli di Hezbollah. Da parte loro, gli Stati Uniti hanno già abbattuto due droni armati iraniani nel sud della Siria, una zona che l’Iran sta cercando di portare sotto il suo controllo. Finora, comunque, questi sforzi non sono stati sufficienti a garantire agli Stati Uniti e a Israele un arretramento dell’Iran.

Israele e Siria confinano per circa 70 chilometri, lungo la maggior parte dei quali sono attivi diversi gruppi di ribelli siriani, in verde; nella punta sud c’è un gruppo affiliato allo Stato Islamico, in grigio, mentre in quella nord ci sono le forze alleate ad Assad, in rosso. Nel sud del Libano, quindi al di là del confine settentrionale di Israele, agisce Hezbollah, alleato dell’Iran (Liveuamap)

L’Iran non ha trovato un valido avversario nemmeno nell’Arabia Saudita, nonostante la rivalità tra i due paesi abbia definito un pezzo delle politiche (e delle guerre) in Medio Oriente degli ultimi anni. I sauditi hanno cominciato a rispondere mossa su mossa all’Iran solo in tempi recenti, guidati dalla smisurata ambizione di Mohammed bin Salman, ma senza avere una strategia precisa in mente. La crisi recente in Libano è piuttosto chiarificatrice di questo problema. A inizio novembre la famiglia reale saudita ha forzato il primo ministro libanese Saad Hariri a dare le dimissioni, nel tentativo di sostituirlo con un altro membro della sua famiglia meno incline di lui a fare accordi politici con Hezbollah. L’intenzione saudita era evidentemente quella di mettere in una posizione difficile Hezbollah e di denunciare l’influenza iraniana nella politica libanese. Il risultato però è stato completamente diverso: in Libano ci sono state feroci proteste contro l’ingerenza dell’Arabia Saudita, Hezbollah si è presentata come una forza politica in grado di garantire stabilità in un momento difficile di crisi e Hariri è tornato in patria e ha ritirato le sue dimissioni.

L’Iran si sta prendendo il Medio Oriente?
L’impunità con cui sembra agire l’Iran da diverso tempo a questa parte è notevole, ma non è da sopravvalutare: per esempio, ha scritto l’analista George Friedman sullo Huffington Post, l’Iran non è ancora in grado di esercitare una forza militare decisiva.

Per arrivare dove è arrivato, l’Iran si è preso rischi enormi e potrebbe scatenare reazioni altrettanto intense: per esempio negli ultimi mesi si è osservato un avvicinamento tra Arabia Saudita e Israele, due paesi tradizionalmente nemici che sembra abbiano cominciato a scambiarsi discretamente informazioni di intelligence in funzione anti-iraniana. C’è anche un’altra cosa. La strategia dell’Iran in Medio Oriente si basa soprattutto sull’appoggio a gruppi e milizie sciite che combattono in suo nome in diversi paesi. L’analista Jonathan Spyer ha definito questa strategia «esportazione del caos»: se l’esportazione del caos ha avuto il merito di tenere i nemici dell’Iran impegnati da altre parti, lontani dai suoi confini, è difficile vedere come possa risultare in un controllo stabile e duraturo del Medio Oriente.

Per come stanno ora le cose, sembra difficile che in tempi brevi l’Iran venga costretto a una ritirata. L’influenza che il governo iraniano ha raggiunto in Iraq, in Siria, in Libano, in Yemen e in Afghanistan, solo per dirne alcuni, è il risultato di un processo che dura da anni e che è dovuto a una serie di circostanze: cambi di regime favorevoli, crescita del nazionalismo e debolezza degli avversari. Non è chiaro se le proteste degli ultimi giorni – che tra le altre cose si sono dirette marginalmente anche contro la costosa politica estera iraniana – possano in qualche maniera condizionare le decisioni future del governo: per il momento, comunque, non sembrano in grado di incidere sul regime in maniera così rilevante.