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  • Lunedì 1 gennaio 2018

Le elezioni da tenere d’occhio nel 2018

Si inizia con le presidenziali in Egitto e le politiche in Italia, e si finisce con le elezioni di metà mandato negli Stati Uniti: in mezzo c'è un gran pezzo di mondo

Luigi Di Maio e Beppe Grillo a Rimini, il 23 settembre 2017 (ALBERTO PIZZOLI/AFP/Getty Images)
Luigi Di Maio e Beppe Grillo a Rimini, il 23 settembre 2017 (ALBERTO PIZZOLI/AFP/Getty Images)

Il 2017 è stato un anno elettorale molto movimentato, in Europa e fuori. In Francia è stato eletto presidente Emmanuel Macron, che non era candidato con alcun partito tradizionale. Nel Regno Unito le elezioni anticipate hanno fatto perdere la maggioranza parlamentare alla prima ministra Theresa May, in Germania il partito di Angela Merkel sta ancora cercando di trovare alleati per poter governare. Fuori dall’Europa sono successe moltissime cose: per esempio il presidente iraniano moderato Hassan Rouhani ha ottenuto un secondo mandato e Shinzo Abe, primo ministro giapponese, ha vinto le elezioni anticipate che a un certo punto sembravano essersi messe non troppo bene.

Emmanuel Macron e sua moglie, Brigitte Macron, dopo avere votato alle ultime elezioni francesi, poi vinte da Macron (AP Photo/Thibault Camus)

Il 2017 è stato anche l’anno dei referendum, non sempre considerati legali. C’è stato il referendum nel Kurdistan iracheno, che però non è stato riconosciuto dal governo centrale di Baghdad. Poco dopo si è tenuto il controverso referendum sull’indipendenza della Catalogna, considerato illegale dalla magistratura e dal governo spagnoli e che ha iniziato una crisi che non si è ancora risolta. Anche in Turchia c’è stato un referendum: l’ha voluto il presidente Recep Tayyip Erdogan per rafforzare i suoi poteri, e l’ha vinto.

Nel 2018 si terranno altre elezioni importanti, che vale la pena tenere d’occhio per diverse ragioni. Ci saranno le elezioni di medio termine negli Stati Uniti, dove i Repubblicani di Trump cercheranno di mantenere la maggioranza sia alla Camera che in Senato. In Egitto si tornerà a votare per il presidente, anche se con Abdel Fattah al Sisi ci sono poche speranze di tornare a vedere un regime democratico. Ci saranno le presidenziali in Russia, di cui si è parlato molto negli ultimi giorni per l’esclusione dalla lista dei candidati di Alexei Navalny, il più noto e conosciuto oppositore del presidente Vladimir Putin. E poi, chiaro, si voterà anche in Italia, il 4 marzo: lo stesso giorno degli Oscar del cinema e di Milan-Inter e Napoli-Roma della serie A di calcio.

Elezioni presidenziali in Egitto – tra l’8 febbraio e l’8 maggio
L’ultimo cambio di presidente in Egitto non è stato proprio democratico. Nel luglio 2013 l’allora generale Abdel Fattah al Sisi prese il potere con un colpo di stato contro Mohammed Morsi, esponente del movimento politico-religioso dei Fratelli Musulmani. Un anno dopo si tennero le elezioni presidenziali, considerate da molti osservatori non sufficientemente democratiche, che furono vinte dallo stesso al Sisi con più del 90 per cento dei voti. Da allora al Sisi ha instaurato in Egitto un regime autoritario: ha creato attorno a sé un forte culto della personalità, ha limitato la libertà di stampa e ha fatto arrestare molti dei suoi oppositori politici.

Il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi al Cairo il 10 ottobre 2015 (KHALED DESOUKI/AFP/Getty Images)

Le candidature per le elezioni che si terranno tra febbraio e maggio non sono ancora state ufficializzate. Al Sisi ha fatto capire di volersi candidare per cercare un secondo mandato (e ultimo, dice la Costituzione). Ha annunciato la sua candidatura anche Khaled Ali, avvocato specializzato nella difesa dei diritti umani e direttore del Centro egiziano per i diritti sociali ed economici. A giugno Ali ha detto, riferendosi all’apparente diminuzione dei consensi per al Sisi: «Se avessimo elezioni giuste, chiunque potrebbe battere al Sisi». Il problema è che la candidatura di Ali potrebbe essere bocciata dalla Commissione elettorale: Ali è stato infatti condannato a tre mesi di carcere per “violazione della pubblica decenza”, e la Costituzione egiziana impedisce a qualsiasi persona con condanne simili di candidarsi alle elezioni.

Elezioni politiche in Italia – 4 marzo
Si vota cinque anni dopo le ultime politiche, ma solo poco più di un anno e mezzo dopo il referendum costituzionale del 4 dicembre 2016, che ha stravolto la politica italiana. Da allora un pezzo di PD se n’è andato per formare un partito di sinistra, MDP, e le opposizioni alla maggioranza di governo di centrosinistra hanno guadagnato nuova forza.

L’ex presidente del Consiglio Matteo Renzi (Franco Origlia/Getty Images)

Secondo i sondaggi, il partito più popolare è il Movimento 5 Stelle, dato intorno al 28 per cento. Il PD ha perso moltissimi consensi, ed è dato intorno al 23-24 per cento. L’ipotesi più probabile, almeno ad oggi, è quella di un governo di centrodestra. Secondo alcuni calcoli, con il Rosatellum bis, la nuova legge elettorale approvata di recente dal Parlamento, per ottenere la maggioranza dei seggi basterà ottenere una cifra vicina al 38 per cento dei voti. La coalizione formata da Forza Italia, Lega e Fratelli d’Italia è data al 35-36 per cento.

A meno di grosse sorprese, l’unica novità nei prossimi tre mesi che potrebbe sparigliare le cose è un’eventuale candidatura di Silvio Berlusconi, che è in attesa di una sentenza sulla sua incandidabilità da parte della Corte europea dei diritti umani di Strasburgo. Secondo diversi esperti, però, la sentenza della Corte potrebbe non arrivare prima delle elezioni.

Elezioni presidenziali in Russia – 8 marzo
Per le prossime elezioni presidenziali russe c’è già il nome del vincitore: Vladimir Putin, presidente dal 1999 al 2008, primo ministro dal 2008 al 2012, e di nuovo presidente dal 2012 ad oggi. La vittoria di Putin non è in discussione: non solo perché tutti i sondaggi, anche quelli indipendenti, lo danno primo con un vantaggio enorme rispetto ai suoi avversari, ma anche perché di fatto in Russia non esiste un’opposizione in grado di frenare il suo potere.

Alexei Navalny, al centro, a Mosca (Evgeny Feldman/Navalny Campaign via AP)

Pochi giorni fa il più noto e conosciuto oppositore di Putin, Alexei Navalny, è stato escluso dalla lista dei candidati alle prossime elezioni. Navalny non aveva alcuna possibilità di vincere: era dato al 2 per cento e fuori dalle grandi città russe è praticamente sconosciuto. La sua partecipazione al voto avrebbe però costretto la televisione nazionale – controllata dal governo – a parlare di lui, un’eventualità che Putin e il suo partito, Russia Unita, volevano evitare a tutti i costi. Al di là di Navalny sembra esserci poco altro: la maggior parte dei partiti di opposizione in Russia fanno parte della cosiddetta “opposizione sistemica”, cioè un’opposizione per modo di dire, che su tutte le questioni più importanti vota in linea con il partito di Putin. Insomma: quelle del 2018 non saranno elezioni da cui aspettarsi colpi di scena.

Elezioni parlamentari in Ungheria – aprile o maggio
Non sono in vista grandi cambiamenti in Ungheria nel prossimo futuro. Stando ai sondaggi, alle elezioni parlamentari che si terranno in primavera il partito Fidesz del primo ministro Viktor Orbán potrebbe prendere il 40 per cento, e stravincere. Già oggi Fidesz – partito conservatore ed euroscettico – controlla i due terzi del Parlamento. Negli ultimi anni la maggioranza parlamentare ha approvato una serie di misure antidemocratiche molto criticate dall’Unione Europea, e ha appoggiato una feroce campagna anti-immigrazione promossa da Orbán.

Il primo ministro ungherese Viktor Orbán (Sven Hoppe/picture-alliance/dpa/AP Images)

Per l’opposizione non sembrano esserci grandi margini. La sinistra ungherese, dopo avere ottenuto un pessimo risultato in coalizione alle elezioni del 2014, ha deciso di dividersi di nuovo. L’altra forza politica rilevante in Ungheria è Jobbik, un partito nazionalista di estrema destra che alle ultime elezioni ha ottenuto 24 seggi sui 199 disponibili. Insomma, la cosa più probabile è che Fidesz vinca anche le prossime elezioni e che Orbán ottenga il suo terzo mandato da primo ministro.

Elezioni parlamentari in Iraq – 12 maggio
La politica irachena non è per niente facile da capire, soprattutto per le rivalità che dividono i partiti sciiti, quelli che nell’attuale Parlamento formano l’Alleanza Nazionale che appoggia il governo del primo ministro Haider al Abadi. Negli ultimi mesi la competizione elettorale irachena sembra essersi focalizzata attorno alla rivalità tra Abadi e Nouri al Maliki, ex primo ministro iracheno considerato responsabile di buona parte delle politiche settarie e discriminatorie contro i sunniti adottate dal governo dopo la fine della guerra tra americani e Saddam Hussein. Semplificando abbastanza, diversi analisti sostengono che se Abadi dovesse riottenere la fiducia per un nuovo mandato sarebbe una buona notizia per gli Stati Uniti; se invece a vincere dovesse essere Maliki sarebbe una buona notizia per l’Iran.

Nuri al Maliki, a sinistra, stringe la mano ad Haider al Abadi durante la sessione parlamentare di investitura di Abadi a Baghdad, l’8 settembre 2014 (AP Photo/Hadi Mizban, Pool)

Abadi potrebbe sfruttare la recente popolarità raggiunta grazie alla riconquista di Mosul e alla sconfitta dello Stato Islamico in Iraq; Maliki sembra invece poter contare sull’appoggio delle Forze di mobilitazione popolare, cioè l’insieme di milizie sciite – la maggior parte delle quali molto vicine all’Iran – che hanno partecipato alla guerra contro l’ISIS e che hanno contribuito alla sua sconfitta. Al di là di tutto, il nuovo governo iracheno avrà un mucchio di problemi da affrontare: la ricostruzione post-bellica, la presenza di milizie armate fuori dal controllo statale, il conflitto con il Kurdistan iracheno e la corruzione, solo per dirne alcune.

Elezioni presidenziali in Messico – 1 luglio
Negli ultimi due anni c’è stato un protagonista inaspettato nella politica messicana: Donald Trump. Sia in campagna elettorale che nel suo primo anno di presidenza, Trump si è riferito più volte al Messico, in particolare all’immigrazione e all’eventuale costruzione di un muro tra i due paesi. Nel 2015, durante la presidenza Obama, i messicani che vedevano con favore il governo americano erano il 66 per cento. Oggi si sono ridotti al 30 per cento.

Andres Manuel Lopez Obrador, leader del Movimento di rigenerazione nazionale e candidato presidente alle prossime elezioni messicane (PEDRO PARDO/AFP/Getty Images)

Della nuova animosità tra Messico e Stati Uniti sembra ne stia beneficiando la sinistra messicana, in particolare Andrés Manuel López Obrador (conosciuto con la sigla AMLO), ex sindaco di Città del Messico, esponente del Movimento di rigenerazione nazionale e candidato favorito a vincere le prossime elezioni. Uno dei suoi principali avversari sarà l’ex ministro delle Finanze José Antonio Meade, che formalmente non fa parte di alcun partito politico ma che sarà il candidato della forza politica di governo, il Partito rivoluzionario istituzionale. Alle elezioni parteciperà anche Margarita Zavala, chiamata la “Hillary messicana”, moglie dell’ex presidente Felipe Calderón. Il vincitore prenderà il posto dell’attuale presidente, Enrique Peña Nieto, che ha completato i suoi sei anni di mandato, il limite consentito dalla Costituzione.

Elezioni generali in Pakistan – 15 luglio
Fino a qualche mese fa le elezioni politiche in Pakistan sembravano essere una buona occasione per la Lega Musulmana di consolidare il suo potere. I sondaggi erano infatti favorevoli al partito del primo ministro Nawaz Sharif, che aveva assunto l’incarico nel 2013. A luglio però le cose sono cambiate. Diversi giornali internazionali hanno pubblicato i Panama Papers, da cui è emersa l’esistenza di rapporti poco chiari tra la famiglia di Sharif e alcune società off shore. La Corte suprema pakistana ha deciso di rimuovere dal suo incarico Sharif, il quale nel frattempo è stato accusato di corruzione.

Il leader dell’opposizione Imran Khan durante una conferenza stampa a Karachi, Pakistan, il 15 dicembre 2017 (AP Photo/Fareed Khan)

Non è chiaro quanto lo scandalo dei Panama Papers abbia indebolito il partito di Sharif, la Lega Musulmana, ma qualcosa potrebbe avere fatto. Il principale partito di opposizione, il Movimento per la giustizia dell’ex giocatore di cricket Imran Khan, sembra essere messo meglio di quanto non fosse anche solo un anno fa. Inoltre potrebbe essere determinante il Partito popolare pakistano di Bilawal Bhutto Zardari, che alle ultime elezioni ha ottenuto il 15 per cento dei voti. Ad ogni modo una certezza c’è: il nuovo governo, di qualsiasi orientamento sarà, dovrà scendere a patti con l’esercito, la forza più potente di tutto il Pakistan.

Elezioni generali in Cambogia – 29 luglio
Dopo Paul Biya (Camerun), Teodoro Obiang Nguema (Guinea Equatoriale) e Ali Khamenei (Iran), il primo ministro cambogiano Hun Sen è il leader al potere da più tempo in tutto il mondo. Hun Sen è primo ministro della Cambogia dal 1985, da 32 anni: ha un passato nel movimento dei Khmer Rossi, il partito comunista guidato da Pol Pot e responsabile di uno dei regimi più violenti del secondo dopoguerra. E soprattutto non ha alcuna intenzione di lasciare il suo posto a qualcun altro.

Il primo ministro cambogiano Hun Sen a Phnom Penh, il 23 agosto 2017 (AP Photo/Heng Sinith)

Il principale partito di opposizione cambogiano, il Partito del riscatto nazionale (PRNC), avrebbe probabilmente avuto la possibilità di competere alle prossime elezioni con il partito di governo, il Partito popolare cambogiano (CCP), se solo non fosse stato sciolto lo scorso novembre. Alle ultime elezioni, che si sono tenute a luglio, il PRNC aveva ottenuto il 44 per cento dei voti, nonostante qualche mese prima Hun Sen avesse costretto alle dimissioni San Rainsy, storico leader dell’opposizione cambogiana, in esilio a Parigi dalla fine del 2015.  A settembre era stato arrestato il leader del PRNC, Kem Sokha, mentre a novembre Hun Sen aveva ottenuto la dissoluzione dello stesso PRNC, eliminando da un giorno all’altro la principale forza di opposizione della Cambogia. Le elezioni saranno il 29 giugno: il risultato non sembra essere in discussione.

Elezioni generali in Zimbabwe – prima di settembre
Lo Zimbabwe non sarebbe probabilmente finito in questa lista se a metà novembre non ci fosse stata una specie di colpo di stato dell’esercito contro Robert Mugabe, leader del paese per 27 anni. I piani di Mugabe erano quelli di garantire una transizione di potere pacifica a favore di sua moglie, Grace, una soluzione però che non piaceva né a una fetta del suo stesso partito, lo ZANU-PF, né ai militari. Per questo Mugabe è stato costretto a dimettersi, dopo essere stato tenuto per diversi giorni in custodia dell’esercito ad Harare, la capitale zimbabwese.

Il presidente dello Zimbabwe Emmerson Mnangagwa, al centro, durante la sua cerimonia di insediamento ad Harare, il 24 novembre 2017 (AP Photo/Ben Curtis)

Il posto di Mugabe è stato preso da Emmerson Mnangagwa, che sarà il candidato presidente dello ZANU-PF alle prossime elezioni. Mnangagwa è un personaggio controverso: come Mugabe, è stato accusato di violazioni sistematiche di diritti umani e di corruzione. Non si sa ancora chi sarà il suo sfidante: si è parlato di Morgan Tsvangirai, storico leader del Movimento per il cambio democratico, partito nazionalista di centrosinistra. Da un anno a questa parte, però, Tsvangirai è in cura per un cancro al colon e non è chiaro in che condizioni di salute sarà quando si terranno le elezioni.

Elezioni generali in Bosnia ed Erzegovina – ottobre
La Bosnia ed Erzegovina è uno dei paesi con la più complicata struttura politica del mondo. Alle elezioni politiche di questo giro verranno eletti tre presidenti (esatto: tre) che si alterneranno alla presidenza ogni otto mesi per i prossimi quattro anni. Saranno anche rinnovati la Camera bassa del Parlamento, i Parlamenti delle due “entità” in cui è diviso il paese e i loro rispettivi presidenti. L’attuale presidente della Bosnia ed Erzegovina è Dragan Čović, che rappresenta i croati e proviene dall’Unione Croata Democratica di Bosnia.

Il presidente della Bosnia ed Erzegovina, Dragan Covic, a Belgrado, in Serbia, il 6 dicembre 2017 (AP Photo/Darko Vojinovic)

Gli osservatori internazionali sostengono che le prossime elezioni saranno importanti per capire se la Bosnia potrà consolidare la sua crescita economica legata soprattutto al turismo e trovare la stabilità che le è mancata negli ultimi anni. Dopo le proteste di piazza del 2014 la situazione in Bosnia si è calmata, ma ogni tanto la tensione torna a salire: è successo ad esempio quest’estate, quando gruppi di studenti hanno protestato contro la segregazione etnica nelle scuole.

Elezioni generali in Brasile – 7-28 ottobre
Un recente sondaggio ha mostrato come l’87 per cento dei brasiliani considerino «molto importante» che i candidati alle prossime elezioni non siano coinvolti in scandali di corruzione. È più facile a dirsi che a farsi, comunque.

Michel Temer, l’attuale presidente, è stato formalmente accusato di partecipazione a un’associazione a delinquere e ostruzione alla giustizia. Temer era diventato presidente nell’aprile 2016, dopo che il Parlamento brasiliano aveva votato l’impeachment per Dilma Rousseff, accusata di corruzione. Il candidato che viene dato per favorito alle elezioni di ottobre è invece Luiz Inacio Lula da Silva (sì, Lula), condannato in primo grado per riciclaggio di denaro e in attesa della decisione di appello. Se dovesse essere condannato definitivamente, non potrebbe assumere l’incarico di presidente.

L’ex presidente brasiliano Luiz Inacio Lula da Silva (AP Photo/Leo Correa)

Lula è il candidato del Partito dei lavoratori, lo stesso di Dilma Rousseff. È stato presidente del Brasile per due mandati, dal 2003 al 2011. I suoi principali sfidanti sono Jair Bolsonaro, un deputato di estrema destra conosciuto per le sue dichiarazioni omofobiche e sessiste, e Marina Silva, già candidata alle presidenziali nel 2010 e nel 2014. Fare il nuovo presidente comunque non sarà facile: nel 2015 l’economia brasiliana è precipitata in una grave recessione, e oggi il tasso di disoccupazione è il più alto mai registrato negli ultimi 20 anni.

Elezioni di metà mandato negli Stati Uniti – 6 novembre
Come di consueto, a metà del mandato presidenziale si rinnovano tutti i seggi della Camera e un terzo dei seggi del Senato, entrambi al momento controllati dai Repubblicani. Sulla carta sembra difficile che i Democratici ribaltino la situazione: alla Camera i seggi dei Repubblicani sono protetti soprattutto dal gerrymandering, mentre su 33 seggi del Senato in palio, 25 sono già in mano a senatori Democratici. Ci sono però alcune cose che nelle ultime settimane hanno fatto preoccupare i Repubblicani.

(Chip Somodevilla/Getty Images)

Per prima cosa, alle elezioni di metà mandato il partito che esprime il presidente paga qualcosa in termini di consenso: un po’ perché spesso l’entusiasmo dell’elezione di due anni prima si è dissipato, un po’ perché nei primi due anni di mandato una nuova amministrazione ha appena il tempo di mettere le basi per le sue riforme più ambiziose, e poco altro. Al Senato, inoltre, i Repubblicani possono contare su una maggioranza di soli due seggi: e contando che secondo gli ultimi calcoli i seggi in bilico sono 9, non sembra così impossibile che la situazione possa cambiare.

I Repubblicani dovranno preoccuparsi soprattutto della scarsa popolarità di Trump, registrata anche tra i suoi elettori (al momento nei sondaggi generici i Repubblicani sono indietro di 13 punti rispetto ai Democratici). Più in generale c’è da considerare il fatto che gli elettori Democratici sono molto più motivati di qualche tempo fa ad andare a votare, soprattutto in funzione anti Trump.

In sintesi, per sperare di conquistare il Senato (difficile, ma fattibile) o la Camera (difficilissimo), i Democratici dovranno andare benissimo e i Repubblicani ottenere risultati deludenti un po’ ovunque. Se una delle due camere passasse ai Democratici, le speranze dei Repubblicani e di Trump di approvare riforme significative nella seconda parte del suo mandato si ridurrebbero quasi a zero.