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  • Mercoledì 27 dicembre 2017

Giacarta continua a sprofondare

Non è solo l'innalzamento delle acque, ma proprio la città che va giù velocemente: e le persone non sembrano così interessate a trovare una soluzione

(Apple Maps)
(Apple Maps)

Giacarta, la capitale dell’Indonesia, sta affondando: più di ogni grande città costiera del mondo. Altrove il problema principale è l’innalzamento delle acque, dovuto soprattutto al riscaldamento globale; a Giacarta – che ha più di 10 milioni di abitanti e si affaccia sul Mar di Giava – il problema non è solo l’acqua che sale, ma è proprio la città che sprofonda sempre di più. Alcune aree della città si sono abbassate anche di qualche centimetro all’anno. Venezia, per fare un paragone, si abbassa di un paio di millimetri l’anno. È un problema vero, attuale – il 40 per cento della città è già sotto il livello del mare – e il sistema che evita che Giacarta sia sommersa è precario. Servono soluzioni drastiche e rapide: gli esperti di idrologia dicono che una soluzione va trovata entro dieci anni, ma per ora non c’è.

Le cause sono molte e complicate, ed è difficile cambiare così tante e grandi cose in così poco tempo. La principale causa dell’affondamento, ha scritto Michael Kimmelman sul New York Times, è che Giacarta è per il 97 per cento coperta di asfalto e cemento, e ci sono molti pozzi illegali usati dagli abitanti per prendere acqua pulita dalle falde acquifere sottostanti. L’acqua che sta in superficie non filtra nel terreno, perché è tutto cemento; quella che sta sotto la città viene portata in superficie svuotando quello che Kimmelman ha definito “il gigante cuscino su cui Giacarta si appoggia”.

Giacarta è la capitale del più grande stato musulmano al mondo e Kimmelman ha scritto che più o meno fino a 500 anni fa, quando arrivarono gli olandesi, era un «fradicio porto, pieno di insetti». Gli olandesi scelsero di mettere le loro case sulle colline: lontano dal mare, dove c’era un’aria più salubre e dove si rischiava meno quando c’erano i tifoni tropicali. Nel Novecento – e soprattutto nella seconda metà, dopo l’indipendenza dell’Indonesia – Giacarta è cresciuta molto ed è diventata una metropoli in cui quasi nessuno si sposta a piedi e in cui le fognature sono praticamente inesistenti.

(Ed Wray/Getty Images)

Nel 2007 ci furono  piogge particolarmente intense che gonfiarono le diverse decine di fiumi che attraversano la città. Quando le acque uscirono dagli argini, invece di dirigersi verso la baia si riversarono nei quartieri settentrionali della città, quelli sotto il livello del mare. Ottanta persone morirono nell’alluvione, 70mila case vennero allagate e mezzo milione di persone fu costretto ad andarsene. Secondo gli esperti è stata la peggiore alluvione avvenuta nel paese negli ultimi trecento anni. Da allora non passa anno senza che, nella stagione delle piogge, la città non sia parzialmente sommersa.

Altri problemi riguardano la deforestazione (molti dei grandi incendi indonesiani sono fatti per trasformare le foreste in terreni coltivabili) e una scarsa manutenzione dei bacini dei fiumi: sono dovuti soprattutto al fatto che l’Indonesia è uno stato federale e con molte divisioni interne, spesso religiose, che rendono difficile decidere e mettere in atto lunghi e complicati piani per tutto il paese. Sidney Jones, direttore dell’Institute for Policy Analysis of Conflict, ha detto che «nessuno crede nel bene comune, c’è troppa corruzione, e nessuno si fida di nessuno».

Nonostante tutto, alcuni anni fa era stato messo in piedi un futuristico e faraonico piano per provare a salvare, e allo stesso tempo rilanciare, Giacarta. Si chiamava Great Garuda (dal nome di un uccello locale, che l’arcipelago di isole avrebbe ricordato nella forma), aveva un costo stimato di 40 miliardi di dollari e prevede la costruzione di una cintura di isole artificiali al largo della città, collegate da un sistema di dighe e chiuse. Le isole e le dighe avrebbero fermato le acque, e la baia di Giacarta sarebbe diventata una laguna artificiale. Al piano avrebbero dovuto partecipare anche una serie di aziende olandesi, che di queste cose se ne intendono. L’idea era costruire sulle isole degli eleganti quartieri residenziali, hotel, palazzi per sedi di importanti società. Per farlo bisognava però prima sfrattare migliaia di pescatori che abitavano sulla costa: solo che non si sapeva bene dove metterli, e molti non volevano andarsene.

Il piano per palazzi, uffici e hotel è comunque stato annullato una decina di giorni fa. Si sta continuando a pensare a dighe, chiuse e isole, ma molti esperti dicono che sarebbe inutile e anche pericoloso: chiudendo la baia, le cui acque sono già molto inquinate (c’è sempre quel problema che non ci sono fogne, e molte industrie scaricano rifiuti direttamente in mare) si creerebbe ancora più inquinamento, trasformando la baia di Giacarta in una specie di laguna tossica. Bisogna risolvere prima gli altri problemi: pulire i bacini dei fiumi e dei canali della città, e evitare che in quei fiumi finiscano cose tossiche o inquinanti.

Nel frattempo davanti ad alcune aree della baia si è più semplicemente deciso di costruire una grande barriera con lo scopo di fermare l’acqua. Kimmelman ha scritto che è «quasi-temporanea» e che se l’abbassamento di Giacarta (e il contemporaneo innalzamento delle acque) dovesse continuare con questo passo, «la barriera sarà sott’acqua entro il 2030». E la barriera non copre comunque tutta la costa: Kimmelman ha scritto che ci sono almeno una ventina di posti in cui per fermare l’acqua ci sono solo dei «bassi e fatiscenti blocchi di cemento».

(Ed Wray/Getty Images)

Il fatto è che, per ora e nel breve periodo, non ci sono vere alternative. Qualcuno ha detto che si potrebbe spostare altrove la capitale del paese, giusto per togliere un po’ di abitanti a Giacarta, e Kimmelman ha scritto che gli inviti a raccogliere l’acqua piovana e non fare pozzi sono poco insistenti e scarsamente accolti. La migliore alternativa – ma anche questa difficile da attuare – sembra essere un misto tra politiche contro l’inquinamento delle acque e piani per togliere un po’ di cemento e rimettere un po’ di aree verdi, reintroducendo per esempio le mangrovie di cui, fino a qualche decennio fa, Giacarta era piena.

Kimmelman ha scritto che ci sarebbe anche un modello a cui ispirarsi. Dopo la Seconda guerra mondiale, Tokyo era in una situazione simile. Dall’inizio del secolo era sprofondata di circa tre metri e mezzo. Ma le amministrazioni cittadine e statali hanno messo un limite alle nuove infrastrutture e Kimmelman ha scritto che «in un decennio la città è diventata un modello di innovazione urbana». Irvan Pulungan, consulente per il cambiamento climatico del nuovo governatore di Giacarta, ha detto che la città «potrebbe diventare per il Ventunesimo secolo quello che Tokyo è stata per il Ventesimo». Poi ha aggiunto: «Ma una città che non sa fornire servizi essenziali è una città fallita. Oltre ai problemi dovuti all’urbanizzazione e alle inondazioni, ora c’è anche il cambiamento climatico. Di questo passo, le persone finiranno a lottare per strada per risorse limitate come l’acqua e un posto in cui vivere».