La rivincita dei Winklevoss coi bitcoin

Hanno investito in bitcoin parte del risarcimento dalla causa contro Zuckerberg e Facebook: oggi sono miliardari, finché dura

Cameron e Tyler Winklevoss (Alli Harvey/Getty Images)
Cameron e Tyler Winklevoss (Alli Harvey/Getty Images)

Nel film The Social Network del 2010, Cameron e Tyler Winklevoss non fanno una bellissima figura: sono due ragazzi ingenui e un po’ invidiosi che si fanno rubare un’idea da Mark Zuckerberg, che riuscirà poi a trasformarla in Facebook, la società di Internet di più grande successo degli ultimi tempi. Secondo molti David Fincher nel suo film non è stato molto generoso con i veri Winklevoss, ma i due fratelli sembrano avere superato quel periodo della loro vita. Con i soldi ottenuti dall’accordo legale con Zuckerberg per non proseguire la causa contro di lui e Facebook, sono diventati tra i principali e più ricchi investitori in bitcoin, la moneta virtuale alternativa alle valute tradizionali di cui si è tornati a parlare molto nelle ultime settimane, in seguito al suo crescente valore e ai suoi più recenti alti e bassi.

Cameron e Tyler Winklevoss hanno 36 anni, sono arrivati sesti alle Olimpiadi di Pechino 2008 nel canottaggio e hanno frequentato l’Università di Harvard nello stesso periodo in cui era iscritto Zuckerberg. Nel 2004 fondarono ConnectU (in origine HarvardConnection), un social network piuttosto rudimentale che consentiva di aggiungere utenti come propri amici, inviargli messaggi e condividere contenuti nelle loro bacheche. Al progetto collaborò lo stesso Zuckerberg, che in seguito avrebbe abbandonato l’iniziativa per dedicarsi alla realizzazione di quello che sarebbe diventato Facebook. I Winklevoss gli fecero causa, ritenendo che Zuckerberg avesse rubato le loro idee: la causa si risolse nel 2008 con un accordo legale da 45 milioni di dollari.

All’epoca i legali dei Winklevoss consigliarono di accettare un risarcimento in contanti, ma i due fratelli ritennero che fosse invece più sensato farsi pagare in quote di Facebook, convinti che il social network avrebbe avuto un notevole successo e che avrebbe fatto fruttare il loro investimento. Gli avvocati pensarono che fosse una decisione assurda, ma non riuscirono a convincere i loro clienti. Avevano ragione i Winklevoss: quando nel 2012 Facebook si quotò in borsa, le azioni dei due fratelli raggiunsero il valore di 300 milioni di dollari.

Interessati a diversificare il loro patrimonio, nello stesso anno i Winklevoss iniziarono a esplorare varie opportunità di investimento. Tra le altre cose videro un buon potenziale nei bitcoin, un sistema di valuta alternativo che stava iniziando a diffondersi e che sembrava essere piuttosto promettente, nonostante lo scetticismo di analisti e investitori abituati ad attività finanziarie più tradizionali. All’epoca un bitcoin valeva circa 10 dollari e la moneta virtuale non aveva un grande interesse intorno, né da parte degli azionisti né della Silicon Valley.

Come racconta il New York Times, in pochi mesi i Winklevoss riuscirono a entrare in possesso dell’1 per cento circa di tutti i bitcoin allora in circolazione, l’equivalente di circa 120mila “monete”. A operazione terminata manifestarono esplicitamente il loro impegno sulla valuta, contribuendo a far aumentare l’interesse degli investitori. Ad aprile del 2013 il loro patrimonio di bitcoin aveva raggiunto un valore equivalente a 11 milioni di dollari. Benché l’interesse fosse aumentato, continuava a esserci un forte scetticismo che costò derisioni e critiche ai Winklevoss, ricordati da tutti con lo stereotipo di quelli che “si erano fatti battere” da Zuckerberg.

Non tutte le critiche erano comunque mal riposte. Oltre ad acquistare la valuta virtuale, i Winklevoss avevano anche investito pesantemente in Bitinstant, una delle prime aziende che si occupavano di gestire scambi in bitcoin. Nel 2014 il suo CEO, Charlie Shrem, fu arrestato con l’accusa di avere fornito bitcoin a utenti che li utilizzavano per scopi illeciti come l’acquisto di sostanze stupefacenti online. Shrem si dichiarò colpevole delle accuse meno gravi e fu condannato a un anno di carcere. I Winklevoss non erano direttamente coinvolti ma la vicenda ebbe comunque conseguenze per la loro reputazione e portò a nuovi dubbi e critiche sui bitcoin. Un loro tentativo di organizzare un fondo per la gestione della valuta fu bocciato dalle autorità statunitensi, contribuendo a portare ulteriore scetticismo. I bitcoin continuavano inoltre ad avere alti e bassi, perdendo sensibilmente valore, ed erano considerati un investimento ad altro rischio.

La loro determinazione ora sembra avere pagato. In questo periodo i bitcoin sono arrivati a essere scambiati a oltre 14mila dollari l’uno, cosa che rende virtualmente miliardari i Winklevoss. Il loro patrimonio equivale a oltre 1 miliardo di dollari e li colloca nella manciata di investitori della prima ora che detengono una parte considerevole della valuta. Molti di questi hanno iniziato a vendere, cautamente per non fare oscillare troppo la valuta, e ad acquistare beni di lusso, squadre in varie discipline sportive o a convertire i loro investimenti ad alto rischio in qualcosa di più rassicurante e con maggiori garanzie.

Nel 2015 i Winklevoss hanno avviato Gemini, un sistema di cambio per i bitcoin che offre diversi sistemi di sicurezza e garanzie per tutelare i proprietari della valuta virtuale. L’azienda ha ricevuto le autorizzazioni necessarie nello stato di New York per gestire portafogli di bitcoin per conto delle banche tradizionali, un’opportunità che mette Gemini in una posizione privilegiata rispetto ad altre aziende che offrono servizi analoghi. La società è in piena espansione e nelle ultime settimane ha gestito una mole notevole di transazioni, complice il valore più alto dei bitcoin.

Secondo i Winklevoss i bitcoin diventeranno un bene così raro da sostituirne altri più tradizionali, come l’oro. Immaginano un futuro, neanche troppo lontano, dove il mercato della valuta virtuale varrà di più di quello dell’oro. Economisti e analisti sono molto più scettici e alcuni ritengono che potremmo essere nel mezzo di una “bolla” simile a quella speculativa sui prezzi dei bulbi dei tulipani scoppiata nei Paesi Bassi nel Seicento: la domanda di bulbi li portò ad avere un valore enorme e a spingere a investire nei futuri bulbi, che ancora non esistevano; quando il loro valore crollò, chi aveva investito si ritrovò senza un soldo. Tulipani o meno, i Winklevoss per ora non hanno comunque intenzione di vendere, come hanno spiegato al New York Times: “Pensiamo ancora che sia probabilmente uno dei migliori investimenti al mondo e che lo possa essere per i decenni a venire. E se non lo fosse, preferiamo vivere con una delusione che col rammarico”.