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  • Mercoledì 6 dicembre 2017

Cosa succede ora con Gerusalemme?

Cosa aspettarsi dall'annuncio di Trump – che per ora è solo un annuncio – sullo spostamento dell'ambasciata statunitense, e dal trambusto che ne seguirà

(THOMAS COEX/AFP/Getty Images)
(THOMAS COEX/AFP/Getty Images)

Come anticipato nelle scorse ore, oggi il presidente americano Donald Trump terrà un discorso in cui riconoscerà Gerusalemme come capitale di Israele e annuncerà un prossimo spostamento dell’ambasciata americana da Tel Aviv proprio a Gerusalemme, dove al momento non ce l’ha nessun paese al mondo. Molti leader europei e arabi hanno cercato di convincere Trump che una mossa del genere aumenterà la tensione e complicherà le future trattative di pace: Gerusalemme è sede di diversi importanti luoghi sacri alle tre principali religioni monoteiste al mondo, è divisa dalla fine della Seconda guerra mondiale e anche i palestinesi la reclamano come futura capitale del loro stato.

Nell’immediato la decisione di Trump ha ottenuto il risultato di rimettere al centro del dibattito mondiale il conflitto irrisolto fra israeliani e palestinesi, scivolato molto più in basso di qualche anno fa nella scala delle priorità della comunità internazionale. La questione nata intorno all’ambasciata americana è su tutte le prime pagine dei giornali internazionali; anche i quotidiani israeliani le stanno dando grandissimo risalto, già prima ancora dell’annuncio ufficiale di Trump. Qualcuno spera che la rinnovata attenzione possa portare a un nuovo impegno per i negoziati sulla pace, fermi da anni per diverse ragioni (una su tutte: la progressiva polarizzazione del dibattito politico sia in Israele sia in Palestina). Per ora, comunque, resta solo una speranza.

Al momento, però, le conseguenze concrete dell’annuncio di Trump saranno poche. Come tutte le altre ambasciate in Israele, quella americana si trova a Tel Aviv: per trovare un edificio adatto, attrezzarlo, renderlo sicuro e trasferire centinaia di dipendenti ci vorranno probabilmente diversi anni. Nel frattempo Trump potrebbe cambiare idea, rallentare le operazioni a seconda dei progressi nelle trattative fra israeliani e palestinesi, o perdere le prossime elezioni.

Ci si aspetta inoltre che Trump parallelamente firmi una proroga a una legge approvata dal Congresso americano nel 1995 che obbliga gli Stati Uniti ad aprire un’ambasciata a Gerusalemme. Un simile atto temporaneo è stato firmato ogni sei mesi da tutti i presidenti in carica, Democratici o Repubblicani. Trump insomma potrebbe annunciare lo spostamento e contemporaneamente firmare la proroga, giustificandola con la cautela e la preparazione necessaria per un’operazione di questo tipo. In questo modo conserverebbe un certo margine di manovra, da utilizzare nelle eventuali trattative future sia nei confronti degli israeliani che dei palestinesi.

È improbabile, inoltre, che gli Stati Uniti subiscano conseguenze dal punto di vista diplomatico. Le principali potenze dell’area, fa notare il giornalista dell’Economist Anshel Pfeffer, sono concentrate su altri fronti. L’Arabia Saudita e l’Iran stanno cercando di espandere la loro influenza in vari paesi del Medio Oriente, ma i loro sforzi hanno interessato solo tangenzialmente la Palestina. L’Egitto ha avviato da anni una collaborazione con Israele sulla sicurezza, ed è uno storico alleato statunitense (si dice inoltre che al Sisi e Trump siano in ottimi rapporti). La Turchia ha ripreso i rapporti diplomatici con Israele da pochi anni, e più in generale non ha grandi interessi in Palestina. Nessuno di questi paesi sembra interessato a reagire.

Le conseguenze dell’annuncio di Trump saranno soprattutto simboliche. Ma il conflitto fra israeliani e palestinesi si nutre soprattutto di simboli, e Gerusalemme è il simbolo su cui nessuna delle due fazioni è disposta a scendere a compromessi. Ancora oggi la riconquista di Gerusalemme durante la Guerra dei Sei giorni – e il racconto commosso dei soldati che ci arrivarono – è uno degli aneddoti fondanti della retorica israeliana. I palestinesi, invece, iniziarono la seconda intifada in seguito a una provocazione dell’allora capo dell’opposizione israeliana Ariel Sharon, che il 28 settembre 2000 passeggiò nella Spianata delle Moschee, un luogo solitamente proibito agli israeliani. L’ultimo tentativo credibile di raggiungere la pace, che risale al 2001, fallì proprio perché non si riuscì a trovare un accordo sulla gestione dei luoghi sacri di Gerusalemme.

Il timore di alcuni analisti è proprio che ci siano nuove violenze scatenate da una decisione simbolica, come fu la passeggiata di Sharon. In seguito all’annuncio di Trump le principali forze politiche palestinesi hanno indetto “tre giorni di rabbia” da oggi fino a venerdì 8 dicembre. Non è ancora chiaro se ci saranno delle manifestazioni coordinate a Gerusalemme o in altre città palestinesi. Le autorità israeliane hanno fatto sapere che aumenteranno le misure di sicurezza in alcune zone, e il consolato americano a Gerusalemme ha consigliato ai funzionari americani e alle loro famiglie di evitare di visitare la città vecchia di Gerusalemme e la Cisgiordania.

Per il momento la situazione è piuttosto tranquilla sia a Gerusalemme sia altrove. La manifestazione critica più violenta, al momento, è stata quella di un gruppo di persone che ieri sera ha bruciato una foto di Trump a Betlemme. L’attenzione delle autorità israeliane si concentrerà soprattutto sulla giornata di venerdì, durante la quale migliaia di palestinesi arriveranno a Gerusalemme, come ogni settimana, per le preghiere alla Spianata delle Moschee.