La “web tax” italiana funzionerà?

Il Senato ha approvato in commissione una nuova norma per provare a far pagare più tasse in Italia alle grandi società digitali: come funziona e cosa se ne dice

di Davide Maria De Luca – @DM_Deluca

(AP Photo/David Goldman, File)
(AP Photo/David Goldman, File)

Tra oggi e domani si voterà in Senato la legge di bilancio in cui domenica scorsa la commissione Finanze ha introdotto, con un voto all’unanimità, la cosiddetta “web tax”, cioè un’imposta pensata per riportare in Italia almeno una parte delle tasse che oggi vengono eluse da alcune grandi società digitali come Facebook e Google. Una volta approvata dal Senato, la legge di bilancio passerà all’esame della Camera: se dovesse essere approvata nella stessa forma, la “web tax” entrerà in vigore a partire dal primo gennaio 2019. Secondo le intenzioni degli autori della legge, un gruppo di senatori e parlamentari del PD, la “web tax” potrebbe portare fino a un miliardo di euro di gettito aggiuntivo entro i prossimi anni.

La legge è stata molto criticata, sia da coloro che sostengono che non riuscirà a raggiungere i suoi obiettivi, sia da coloro che si oppongono a questo tipo di tassazione, perché la ritengono troppo distorsiva del mercato. Secondo la maggioranza degli esperti e delle istituzioni internazionali, però, l’elusione fiscale è diventata oramai un problema impossibile da non considerare. Secondo uno studio del Parlamento europeo, le grandi società eludono ogni anno al fisco europeo circa 70 miliardi di euro.

Secondo l’OCSE e la Commissione Europea il modo migliore per fermare questo fenomeno è un accordo internazionale, o almeno a livello europeo. Le organizzazioni internazionali però si stanno muovendo lentamente, principalmente a causa dell’opposizione di quei paesi con regimi fiscali vantaggiosi che traggono un guadagno da questa situazione. Diversi paesi europei hanno provato a fermare l’elusione fiscale in maniera unilaterale, approvando varie forme di “web tax”. I risultati, però, non sempre sono stati all’altezza delle aspettative. La materia è infatti molto complessa e le iniziative dei singoli paesi rischiano essere inefficaci o in conflitto con i trattati internazionali. Il Parlamento italiano aveva già approvato una “web tax” nel 2014, ma la legge venne abrogata prima di entrare in vigore.

A cosa serve la “web tax”?
Per comprendere la ragione e il funzionamento della “web tax” bisogna fare un passo indietro. Fino a pochi decenni fa i governi potevano facilmente individuare dove le società producevano reddito e quindi tassarle. Con l’avvento delle grandi società che offrono servizi digitali le cose si sono fatte più complicate. Prendiamo per esempio i grandi social network e i motori di ricerca: qual è il luogo dove producono il loro reddito e quindi quale stato ha il diritto di tassarli? Essendo il loro business sostanzialmente “immateriale” (non hanno bisogno di grandi capannoni con migliaia di operai, ma possono vendere i loro servizi in tutto il mondo) per queste aziende è facile eludere il fisco, stabilendo una sede presso un paese dove i redditi sono meno tassati, ma vendendo in tutto il resto del mondo i loro servizi. Tutte le imprese possono usare simili strumenti di “elusione fiscale”, ma per le imprese digitali è più facile grazie all’immaterialità del loro business.

Come ha spiegato uno degli autori della legge, il senatore del PD Massimo Mucchetti, in un’intervista al Corriere Economia: «Gli over-the-top [cioè le grandi società del digitale, per esempio Google e Facebook] non esportano come la Volkswagen ma lavorano in luoghi virtuali, dicono loro, una materia prima: i dati personali raccolti in loco, per rendere i loro servizi. I dati sono il petrolio del Terzo millennio ma le varie Google, a differenza dei petrolieri, non li pagano. Certo, remunerare i detentori dei dati è oggi tecnicamente impossibile, ma il loro valore può essere difeso e remunerato attraverso le imposte del paese di estrazione».

Dopo un’iniziale freddezza, nell’ultimo decennio anche le grandi organizzazioni internazionali hanno iniziato a occuparsi del problema. Nel 2013, per esempio, l’OCSE (l’organizzazione che riunisce i paesi più industrializzati al mondo) ha prodotto un documento intitolato “Addressing Base Erosion and Profit Shifting“, più noto con la sigla BEPS, che elenca 15 “azioni” che gli stati membri dell’OCSE dovrebbero intraprendere per combattere l’elusione fiscale. La prima di queste riguarda proprio l’elusione fiscale da parte dei grandi attori dell’economia digitale.

Al centro del documento c’è ancora una volta la discrepanza tra il luogo dove i profitti delle aziende vengono generati e il luogo in cui vengono tassati (spesso piccoli stati con una bassissima tassazione, anche se non necessariamente paradisi fiscali: l’Irlanda, per esempio). L’OCSE però sconsiglia l’introduzione di una normativa specifica per tassare le imprese digitali, e sconsiglia anche le azioni unilaterali degli stati. Suggerisce invece una serie di misure multilaterali e internazionali per combattere l’elusione in genere e quindi anche quella dei grandi gruppi del digitale.

Quanto vale l’elusione e come funziona
Negli ultimi anni si sono moltiplicati gli studi su quanto le grandi società, non solo quelle del digitale, siano riuscite a eludere negli ultimi anni. Secondo il centro studi americano “Institute on Taxation and Economic Policy” (ITEP), nel 2016 le prime 500 società al mondo avevano depositato in conti all’estero un totale di 2.600 miliardi di dollari. Il record in questa classifica appartiene a Apple, che ha depositato in Irlanda 246 miliardi di dollari di profitti che non riporta negli Stati Uniti per evitare di doverci pagare sopra un’imposta del 35 per cento.

Secondo uno studio del Parlamento europeo, ogni anno le grandi società eludono al fisco europeo 70 miliardi di euro, e ne eludono tra i 100 e i 240 miliardi nel resto del mondo (i proventi di questa elusione sono quelli che, nel corso degli anni, hanno alimentato la massa di capitale stimata dall’ITEP). Una grossa parte di questa elusione è spesso attribuita alle grandi società del web. L’Ufficio parlamentare di bilancio italiano ha calcolato che Google nel 2015 ha fatturato 637 milioni di euro da clienti italiani che hanno pagato per la sua pubblicità. Di questi, 67 milioni sono stati fatturati da Google Italia, mentre altri 570 sono stati fatturati da Google Ireland, la società madre di tutte le operazioni di Google in Europa. Soltanto i redditi della prima sono tassati in Italia, anche se entrambe le società hanno fornito servizi e prodotti a clienti italiani che li hanno utilizzati in Italia.

Questa divisione tra Google Italia e Google Ireland è soltanto un aspetto del complesso sistema utilizzato da Google per risparmiare sulle tasse. Il primo passaggio, come abbiamo visto, è mantenere basso il fatturato della società che ha sede nel paese ad alta tassazione (Google Italia, in questo caso) e di riversare invece ricavi e profitti nella società che si trova nel paese a bassa tassazione (Irlanda). Google Ireland versa a sua volta buona parte degli incassi alla holding di Google nei Paesi Bassi che, in un’ennesimo passaggio, li versa a sua volta a Google Ireland Holding, che possiede il diritto esclusivo dell’uso del marchio Google in tutti i paesi esclusi gli Stati Uniti.

Questo schema, in cui il denaro passa dall’Irlanda ai Paesi Bassi e poi di nuovo all’Irlanda, viene chiamato in gergo “Double Irish Dutch Sandwich”, cioè “panino all’irlandese con ripieno olandese” e serve a sfruttare i cavilli della legislazione fiscale irlandese per risparmiare ulteriormente sulla tassazione (Google non è l’unica società a utilizzare questo sistema). Al panino andrebbe comunque aggiunto anche un ulteriore contorno, visto che gli utili prodotti da Google Ireland Holding non sono tenuti nel paese ma vengono spostati in una società di Google con sede alle Bermuda, che è un vero e proprio paradiso fiscale, dove vengono “parcheggiati” sostanzialmente gratis (nelle Bermuda non si pagano tasse sugli utili). Nel 2014, grazie a questo schema, Google ha portato nelle Bermuda circa 10,7 miliardi di euro di profitti raccolti in Europa. Si calcola che nel 2015 Google abbia pagato il 6 per cento di tasse sui suoi ricavi in Europa, cioè un quarto dell’imposta media sui ricavi pagata dalle società europee che non riescono a praticare vasti schemi di elusione.

Esistono soluzioni?
La Commissione Europea ha iniziato a lavorare sull’elusione da parte delle grandi società digitali nel 2013, praticamente nello stesso momento dell’OCSE, ed è giunta a conclusioni simili. Anche la Commissione sostiene che si dovrebbe evitare di creare un regime fiscale speciale nazionale, ma che bisognerebbe rendere più efficace l’attuale sistema con un accordo internazionale o almeno tra gli stati europei. La Commissione avrebbe il potere di introdurre le norme necessarie, ma questo percorso è reso particolarmente complicato dall’opposizione di paesi come Irlanda, Lussemburgo e Olanda, che grazie ai loro sistemi fiscali molto vantaggiosi per le imprese riescono a guadagnare da questa situazione.

Nel frattempo diversi paesi hanno provato a fare da soli. Una strada che ha prodotto buoni risultati per i governi è portare le grandi società digitali a un contenzioso fiscale. Lo scorso maggio, l’Agenzia delle Entrate ha contestato a Google Ireland una “stabile organizzazione” in Italia, cioè accusava la società di operare almeno parte dei suoi affari nel nostro paese, fatturando però in Irlanda. Per chiudere il contenzioso, Google ha accettato di pagare 306 milioni di euro in più di tasse per il periodo 2002-2015 (essendoci stato un accordo, però, non è stata riconosciuta ufficialmente la “stabile organizzazione” di Google Ireland in Italia). Google ha fatto accordi simili anche in Francia, dove ha accettato di pagare 1,6 miliardi di euro, e nel Regno Unito. Si tratta però di misure una tantum.  Nel 2016, un anno dopo l’accordo con il fisco italiano, Google Ireland continua ad avere sede in Irlanda e a fatturare nell’isola gran parte dei servizi venduti nel nostro paese.

Un’altra possibilità è costruire una qualche forma di imposta da applicare solo ai giganti del web e che riesca in qualche modo a battere i sistemi di elusione, le cosiddette “web tax” appunto. Governi e parlamenti di Germania, Francia, Ungheria, Regno Unito, Spagna e Italia hanno tutti introdotto o provato a introdurre varie forme di queste imposte, in genere senza ottenere grandi successi. In Italia, per esempio, la prima “web tax” introdotta nel 2014 è stata abrogata ancora prima di entrare effettivamente in funzione. I tentativi unilaterali di risolvere il problema si scontrano spesso con le leggi e i trattati internazionali già in vigore. Se, per esempio, un singolo stato trova un modo di far pagare a Facebook le tasse sul suo territorio, la società si troverà a dover pagare imposte sul reddito sia nel paese che ha trovato un modo di tassarlo, sia nel paese in cui dichiara di produrre quel reddito. La doppia imposizione è vietata dai trattati internazionali e quindi quell’impresa, facendo appello ai tribunali, potrebbe vedersi riconosciuto il diritto a non essere tassata due volte per lo stesso motivo, disinnescando così gli effetti della “web tax”.

Come funzionerà in Italia?
Esistono varie strategie per cercare di contrastare questo rischio; Mucchetti, insieme agli altri sostenitori della legge come il deputato PD Francesco Boccia, sono convinti di averne trovata una. La nuova “web tax” appena approvata dal Senato ha sostanzialmente lo scopo di far emergere il fatto che Google Ireland e le altre società con sede in paesi con regimi fiscali vantaggiosi hanno una “stabile organizzazione in Italia” e quindi dovrebbero pagare le imposte nel nostro paese (tutti i giganti del digitale hanno già oggi una “stabile organizzazione”in Italia: esistono Google Italia e Facebook Italia, per esempio, ma queste società in genere fatturano pochissimo rispetto alle società con sede in Irlanda e Paesi Bassi).

Il metodo con cui si punta a raggiungere questo risultato è abbastanza complesso e per questa ragione la sua efficacia è stata molto criticata. La “web tax” italiana introdurrebbe un’imposta del 6 per cento sul fatturato delle vendite di servizi digitali. L’elenco preciso delle transazioni che saranno oggetto dell’imposta sarà stabilito con un decreto del ministero dell’Economia che dovrà essere pubblicato il prossimo anno. Sembra che saranno considerate soltanto le transazioni tra società (le cosiddette B2B, “business to business”) e quelle che prevedono la vendita di prodotti o servizi esclusivamente digitali. La tassa quindi non si applicherà al vostro abbonamento a Netflix o ai vostri acquisti su Amazon.

L’imposta sarà pagata dagli intermediari finanziari che gestiranno l’acquisto. Quindi se una società acquista un servizio digitale per 100 euro, la banca o l’altro intermediario che gestirà il pagamento, preleverà sei euro dalla transazione e li verserà allo Stato. L’Agenzia delle Entrate monitorerà tutte queste transazioni e, quando una società estera che vende servizi digitali supererà una certa soglia, gli contesterà la presenza di una stabile organizzazione in Italia sulla base dei nuovi requisiti per questa qualifica. A quel punto inizierà un contenzioso con l’Agenzia delle Entrate che, se porterà all’accertamento di una “stabile organizzazione” in Italia, renderà la società soggetta al pagamento delle normali imposte sul reddito italiane. Mucchetti ha detto al Corriere Economia di non essere preoccupato dagli eventuali ricorsi delle società contro la legge: «Avranno buone probabilità di perdere se l’amministrazione italiana saprà usare gli spazi aperti dalla più recente giurisprudenza europea contro l’elusione fiscale».

Nonostante queste rassicurazioni, in molti restano scettici sulla possibilità di mettere in pratica la legge. Dario Stevanato, docente di Diritto tributario all’università di Trieste, ha elencato numerosi problemi della legge, che potrebbero portare a conflitti con la normativa italiana e quella europea. Mario Seminerio, blogger economico e analista finanziario, ha individuato altri due problemi. Il primo: le grandi società del digitale potrebbero semplicemente limitarsi a scaricare i costi della nuova tassa sui consumatori finali, cioè le imprese italiane che acquistano i loro servizi. Il secondo: una volta riconosciuta la “stabile organizzazione” le imprese verrebbero tassate sui profitti, cioè sui guadagni. La società con sede in Italia, a quel punto, potrebbe utilizzare una serie di tecniche per far sparire tutti i profitti e attribuirli invece a una società controllante, che continuerebbe ad avere sede in un paese a bassa tassazione. Secondo Mucchetti, l’Agenzia delle Entrate possiede già oggi strumenti adatti a contrastare questo tipo di elusione.

Per il momento, le autorità europee non sembrano particolarmente entusiaste del progetto di “web tax” italiana. La commissaria alla Concorrenza, Margrethe Vestager (che lo scorso giugno aveva multato Google per 2,4 miliardi di euro per aver violato le regole sulla libera concorrenza), ha detto che la “web tax” italiana è un progetto apprezzabile, ma che comunque sarebbe meglio «trovare un approccio a livello europeo o, meglio ancora, internazionale». Vestager ha aggiunto che «se non si troverà un accordo internazionale avanzeremo una proposta europea». In un’intervista data a Eunews, Roberto Viola, direttore generale del DG Connect, il dipartimento della Commissione Europea che si occupa del settore digitale, è stato ancora più netto: «Una questione come la “tassa sul web” non può essere affrontata dai paesi dell’UE separatamente, poiché si rischia la distruzione del mercato unico digitale. L’azione non coordinata può aumentare il contenzioso fiscale internazionale sulle società, fornire ulteriori scappatoie alle multinazionali digitali e danneggiare il consumatore».