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  • Giovedì 9 novembre 2017

Ascesa e declino di “Rolling Stone”

Cinquant'anni fa Jann Wenner si inventò una rivista che avrebbe cambiato il giornalismo musicale, ma da allora sono cambiate molte cose

Il 9 novembre del 1967, cinquant’anni fa, nelle edicole di San Francisco uscì un giornale con un titolo che evocava una canzone di Bob Dylan e in prima pagina una foto di John Lennon con un elmetto da militare, tratta dalla commedia allora appena uscita Come ho vinto la guerra. In quegli anni la controcultura universitaria, il movimento hippie e la musica rock erano appena nati, e già riempivano le strade e le università della California: il centro di questo mondo enorme era proprio San Francisco. In pochi pensavano che la musica rock sarebbe diventata uno dei pilastri della produzione culturale mondiale per i cinquant’anni successivi. Uno di quei pochi era il 21enne Jann Wenner, che di Rolling Stone fu, ed è ancora, l’anima principale.

Wenner era originario di New York, ma si era trasferito a San Francisco per studiare all’università di Berkeley, che lasciò prima di laurearsi. Aveva fatto parte del Free Speech Movement, conoscendo da vicino la cultura hippy, e aveva seguito dall’inizio la nascita del rock. Si era convinto che band come i Beatles, i Rolling Stones e i Grateful Dead meritassero una stampa specializzata, con una sua dignità e soprattutto una sua professionalità, diversa da quella dietro ai molti giornali dilettanteschi della controcultura che aprivano e chiudevano con grande rapidità nella San Francisco di quegli anni. Wenner ebbe la fortuna di conoscere Ralph J. Gleason, il critico di jazz del San Francisco Chronicle, che nonostante avesse quasi trent’anni in più aveva una grande apertura mentale e gusti musicali molto eclettici. Wenner aveva attaccato bottone con lui durante un concerto un paio di anni prima, e i due erano diventati amici.

Wenner riuscì a convincere Gleason dell’esigenza e delle potenzialità di un giornale che si dedicasse al rock, che come entrambi sapevano era lì per restare: che lo raccontasse per quello che era, e cioè l’elemento unificante di un movimento nuovo e potente. Scelsero il nome ispirandosi alla canzone di Bob Dylan “Like a Rolling Stone”, e riuscirono a raccogliere 7.500 dollari tra lo stesso Gleason, i genitori di Wenner, quelli della sua fidanzata e un collega di università. Insieme a un gruppo di amici e volontari presero in affitto un loft nella zona di South of Market, e si misero a lavorare al primo numero.

Wenner voleva che Rolling Stone contenesse articoli di critica musicale e culturale, ma anche pezzi di giornalismo investigativo. Nel primo numero, infatti, ne uscì uno su una storia di soldi mancanti al Monterey Pop Festival: Wenner voleva prendersi dei rischi. Gleason scrisse un editoriale contro le televisioni che non invitavano i grandi artisti soul afroamericani. La foto di Lennon la scelsero un po’ per disperazione due giorni prima di andare in stampa, ma si convinsero che rappresentasse l’essenza del giornale, unendo musica, cinema e politica. Nel suo editoriale, Wenner spiegò ai lettori che voleva fare una cosa a metà tra una rivista e un giornale: «Rolling Stone non parla solo di musica, ma anche di tutte le cose e le mentalità che la musica si porta dietro».

All’inizio i redattori di Rolling Stone non firmavano la maggior parte dei pezzi, per non rivelare quanti pochi fossero in realtà. Wenner nei primi tempi si occupò di quasi tutto: editava i pezzi, sceglieva i titoli, le foto, le illustrazioni, la loro disposizione nelle pagine. Seppe raccogliere intorno a sé moltissimi giovani giornalisti talentuosi e seppe farli migliorare ed emergere, finché diventarono alcuni dei più grandi autori del nascente “New Journalism”: da Lester Bangs a Hunter Thompson, da Joe Klein a Tim Cahill, che negli anni successivi sarebbero stati tra i più influenti del giornalismo statunitense. Ma per Rolling Stone passò anche gente come la fotografa Annie Leibovitz, o il regista Cameron Crowe, che infatti avrebbe poi raccontato la sua esperienza alla rivista nel film Quasi famosi.

Nel giro di dieci anni Rolling Stone era diventata troppo grande per San Francisco, e si spostò a New York. Le sue inchieste e i suoi editoriali indirizzavano il dibattito culturale statunitense e di conseguenza mondiale, e Wenner a New York cominciò a far fruttare l’impresa anche dal punto di vista economico. Wenner preferì sempre non cambiare molto il giornale che aveva ideato e le cose funzionarono fino agli anni Ottanta, quando il suo conservatorismo gli fece perdere qualche occasione, per esempio partecipare alla creazione di MTV, che ritenne un progetto fallimentare.

Negli anni Novanta Rolling Stone provò ad adattarsi a un pubblico più giovane e vicino al pop, perdendo un po’ di credibilità e tornando sui suoi passi negli anni Duemila. Riuscì a riguadagnare consensi dal punto di vista giornalistico grazie a reporter come Matt Taibbi e soprattutto Michael Hastings, uno dei più talentuosi della sua generazione, un cui articolo del 2010 rivelò le critiche del generale Stanley A. McChrystal nei confronti dell’amministrazione Obama, provocandone le dimissioni. La rivista ha dodici edizioni in paesi stranieri, e dal 2003 esce anche Rolling Stone Italiacon contenuti originali che si ispirano ai temi trattati dall’edizione originale, e altri tradotti.

Dal punto di vista della critica musicale, Rolling Stone è stata probabilmente la grande rivista di musica che meno ha saputo adattarsi alla progressiva perdita di rilevanza culturale del rock, e all’ascesa del pop e soprattutto dell’hip hop nel dibattito culturale contemporaneo. Le celebrazioni dei vecchi mostri sacri del rock degli anni Settanta e Ottanta, le cui storie e i cui aneddoti vengono ancora oggi periodicamente raccolti in gigantesche liste delle canzoni, dei dischi o dei chitarristi migliori di sempre, spesso non sono state compensate da un’attenzione alle nuove tendenze e ai nuovi movimenti musicali.

A essere criticata fu anche la filosofia stessa dietro queste liste, accusate di essere sterili e autoreferenziali, ma sulle quali Rolling Stone ha sempre investito molto dal punto di vista commerciale. Nella seconda metà degli anni Duemila questo scollamento con lo stato dell’industria musicale contemporanea diventò un tema di dibattito nel giornalismo musicale americano. I giornali e i siti considerati a quel punto più conservatori, tra cui proprio Rolling Stone, vennero messi sotto l’etichetta del rockism, la tendenza un po’ ostinata di celebrare gli artisti rock duri e puri a discapito del pop e dell’hip hop. Qualcuno ha paragonato questo conservatorismo di Rolling Stone a quello che negli anni Settanta portò il giornale a sminuire regolarmente i Led Zeppelin, e dieci anni più tardi la musica metal in generale.

Negli ultimi anni Rolling Stone è passata per alcuni incidenti che ne hanno incrinato la reputazione. Nel 2013 mise in copertina Dzhokhar Tsarnaev, uno degli attentatori della maratona di Boston, ricevendo moltissime critiche e anche una diffusa campagna di boicottaggio. Nel novembre del 2014, invece, pubblicò un articolo che raccontava uno stupro avvenuto nella University of Virginia. Le successive indagini del Washington Post rivelarono che l’indagine conteneva molte discrepanze, ed era stata condotta, così come molte altre nel giornale, applicando standard giornalistici laschi e discutibili.

Questi incidenti e la progressiva dismissione del ruolo di guida del dibattito culturale e della critica musicale, uniti alle trasversali difficoltà economiche dei giornali, hanno fatto sì che quest’anno la società di Jann Wenner (Wenner Media) abbia venduto prima il 49 per cento delle azioni di Rolling Stone a BandLab Technologies, una società di tecnologie musicali di Singapore, per 40 milioni, e a settembre abbia annunciato che è in vendita anche il rimanente 51 per cento.