A Thelonious Monk bastava il nome

Storia e musica di uno dei più grandi pianisti jazz di sempre, che nacque cento anni fa e fu unico in ogni cosa che fece

di Stefano Vizio – @stefanovizio

Thelonious Monk al Newport Jazz Festival in Newport nel 1963. (AP Photo)
Thelonious Monk al Newport Jazz Festival in Newport nel 1963. (AP Photo)

Che Thelonious Monk non sarebbe stato uno qualsiasi lo si sarebbe potuto immaginare già il 10 ottobre 1917, cento anni fa, quando nacque a Rocky Mount, North Carolina, e i suoi genitori decisero di dargli quel nome che sembrava fatto per finire sulle locandine dei concerti. Si trasferì molto piccolo a New York, la città in cui a partire dalla fine degli anni Quaranta, insieme a un pugno di altri musicisti afroamericani, inventò il be bop, il movimento musicale che ribaltò il jazz per come lo si conosceva e senza il quale non avremmo avuto molte delle cose che ascoltiamo oggi.

Ma a differenza dei suoi colleghi Charlie Parker, Dizzy Gillespie e Miles Davis, Monk evitò sempre le celebrazioni e i divismi di cui poteva essere protagonista un jazzista in quegli anni, occasione più unica che rara di ascesa sociale per un afroamericano in quegli anni. Il suo carattere schivo, da uomo dietro le quinte, rispecchiava il suo reale ruolo di mentore e maestro dei musicisti più giovani, ribelli e fotografati: il risultato fu che la sua figura assunse già quand’era in vita contorni misteriosi e da santone, rafforzati dai suoi comportamenti bizzarri, dal suo proverbiale cappello che sembrava più un copricapo da sciamano, e dalla sua presunta malattia mentale. Ma anche senza protagonismi e senza una vita sopra le righe, il suo nome dice jazz anche a chi di jazz non sa nulla, ma sa che Thelonious Monk era uno leggendario, lui e il suo nome da predestinato.

Quando i suoi genitori si spostarono a New York, Monk aveva 4 anni, si trasferirono in un appartamento sulla 63esima strada a Manhattan che si affacciava su un tratto di strada che oggi porta il suo nome. Il quartiere era conosciuto come San Juan Hill, come la famosa battaglia della guerra ispano americana, perché abitato da molti veterani afroamericani. Si appassionò al pianoforte dopo aver preso lezioni da 15 centesimi all’ora al centro ricreazionale del quartiere, e cominciò a suonare presto davanti ad altre persone, diventando un abitudinario delle serate dell’Apollo Theater in cui il pubblico poteva salire sul palco ed esibirsi.

Mollò la scuola superiore per andare in tour insieme a un predicatore, suonando l’organo. In quegli anni imparò una quantità sconfinata di canti gospel e canzoni popolari afroamericane, e assorbì tutte le tecniche e gli stili dei pianisti che li accompagnavano, dal ragtime di Scott Joplin allo swing di Duke Ellington. Ma lo stile che più lo influenzò fu lo stride, molto in voga a New York negli anni Venti e Trenta, e che si basava in sostanza su una tecnica particolare della mano sinistra: invece che suonare un accompagnamento fatto soltanto di accordi, li alternava a note basse, suonate su ottave diverse della tastiera, dando alla musica un andamento incalzante e ritmato. A differenza del ragtime, era una musica che si basava molto sull’improvvisazione, e che prevedeva una grande varietà nel ritmo e nella dinamica. Fin da giovanissimo, Monk prese grande ispirazione dal pianista stride James Price Johnson, e come lui sviluppò un approccio alla musica più istintuale che analitico, basato più sulle sensazioni che sul metodo, sulla semplicità che sui tecnicismi.

Una reinterpretazione di Monk di una canzone popolare, in cui si sente il suo stile stride (oltre che il suo incessante borbottio che accompagna la melodia).

All’inizio degli anni Quaranta diventò pianista fisso al Minton’s Playhouse, un locale di Harlem, dove conobbe alcuni dei musicisti emergenti di Manhattan insieme ai quali avrebbe fondato il be bop, che venne inventato in quelle fumose e chiassose notti di improvvisazioni nei locali di Harlem e della 52esima strada. Monk suonò con Parker, Davis, Gillespie, con i trombettisti Howard McGhee e Roy Eldridge e con il sassofonista Teddy Hill, entrando nel giro di quei musicisti neri che a New York stavano rivoluzionando il jazz suonato nei locali notturni, andando contro lo swing delle big band, percepito ormai come un genere logoro e staccato dalle esperienze afroamericane delle grandi città della costa Est.

Nonostante storie che sostengono il contrario, Monk non ebbe problemi di droga: una volta però era in auto con il grande pianista Bud Powell, e la polizia trovò dell’eroina a bordo. Visto che si rifiutò di testimoniare contro Powell, a Monk tolsero l’abilitazione a suonare nei locali di New York che servivano alcolici, privandolo di fatto del suo introito principale, e costringendolo a esibirsi nei teatri o nei locali fuori città. Monk non fece mai molti soldi, e visse quasi tutta la sua vita nel suo appartamento: sempre quello sulla 63esima strada, dal 1947 con la moglie Nellie Smith, dal 1949 con il loro primo figlio Toot, e dal 1953 con la seconda figlia Barbara.

Tra gli anni Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta Monk compose alcuni dei suoi brani più celebri, come “Straight No Chaser”, “Well You Needn’t” e soprattutto “Round Midnight”, che sarebbe diventato lo standard jazz più registrato nella storia, tra quelli composti da un jazzista e non presi dalle canzoni tradizionali americane.

“Straight No Chaser”, del 1951, si basa su un tema spiccatamente blues, suonato prima dal piano e poi dai fiati: è fatto di cinque note, a cui poi se ne aggiungono altre due, che poi diventano soltanto quattro, e che comincia su movimenti diversi della battuta e si conclude a ogni ripetizione in un modo diverso.

Monk fece le sue prime registrazioni nel 1944 insieme al quartetto del sassofonista Coleman Hawkins, ma con la sua prima notorietà – e dopo un profilo su di lui apparso sulla rivista Down Beat – nel 1947 fu scritturato dalla storica etichetta Blue Note. Nel 1952 passò alla Prestige, per la quale registrò con Sonny Rollins e Miles Davis. Ma fu quando passò all’etichetta Riverside, che aveva sotto contratto anche il pianista Bill Evans, che Monk ottenne il suo vero successo. Nel 1956 uscì Brilliant Corners, registrato insieme a Rollins, al batterista Max Roach e al bassista Paul Chambers, tra gli altri. È uno dei dischi più complessi di Monk, e per registrare il brano omonimo ci vollero cinque ore. I musicisti quasi impazzirono: il bassista Oscar Pettiford a un certo punto della sessione smise di suonare e si limitò a mimare i movimenti della mano, per protesta, e dopo la registrazione non rivolse più la parola a Monk.

I primi accordi di “Brilliant Corners” sono suonati quasi con violenza da Monk, e sono seguiti da un monumentale tema dei fiati guidati dal sax tenore di Rollins: il pezzo è tutto storto, con una struttura asimmetrica, cambi di tempo improvvisi e accenti messi dove non ce li si aspetta.

Monk non suonava come un virtuoso, come per esempio faceva Parker o, per rimanere tra i pianisti, Oscar Peterson. Preferiva togliere, piuttosto che aggiungere, e infatti trovò un suono distintivo suonando gli accordi soltanto con due note (la tonica e la settima, per chi conosce l’armonia musicale), cercando di raggiungere una specie di suono primordiale. E sempre per questo motivo usò come pochissimi altri le pause: le inseriva dove normalmente non sarebbero dovute finire, sfruttandole così non come semplici assenze di suono, momenti di sollievo tra un arpeggio e l’altro, ma come parti integranti e affermative delle improvvisazioni. Tra quelli che più furono influenzati da questo stile ci fu Miles Davis, un altro che rimase alla larga dai virtuosismi (nel suo caso anche per limiti tecnici), e che raccontava di passare ore ad ascoltare le lezioni di musica di Monk. Monk ebbe anche la fortuna, a un certo punto della seconda metà degli anni Cinquanta, di incontrare John Coltrane, che era stato cacciato proprio dal quintetto di Miles Davis: Coltrane fu tra i pochissimi jazzisti capaci di tenere testa a Monk, in quanto a imprevedibilità nell’improvvisazione, e si trovò molto a suo agio nel riempire le sue pause con le sue famose valanghe di note velocissime.

Il gusto per le dissonanze, per gli accordi suonati con imprecisione e prepotenza, che avevano anche lo scopo di trasformare il pianoforte in una sezione ritmica, erano tutte caratteristiche che si allontanavano per esempio dall’eleganza di Bill Evans, grande pianista a lui contemporaneo. Lo resero però un musicista unico, che spesso fu erroneamente considerato più vicino all’avanguardia che al jazz. Ma le sue composizioni erano in realtà sempre orecchiabili, sempre melodiche, e sempre legate alla musica tradizionale. Si è detto a volte che Monk non conosceva bene la storia della musica, o i compositori classici, o gli altri generi che non fossero il jazz: in realtà sapeva bene tutte queste cose, e il suo stile era soltanto apparentemente naif e rudimentale.

Due concerti di un tour europeo di Monk, insieme al batterista Ben Riley, al bassista Larry Gales e al sassofonista Charlie Rouse. Oltre alle manate sulla tastiera e alla tensione impulsiva delle dita, si vede un’altra cosa che rese famosi i suoi concerti: i balli in piedi affianco al pianoforte, mentre lasciava suonare gli altri musicisti.

Negli anni Sessanta Monk era diventato molto famoso, nonostante la sua riservatezza lo confinasse ai margini della celebrità musicale. Firmò con la Columbia, una delle più grandi case discografiche americane, e nel 1964 finì sulla copertina di Time, unico jazzista a riuscirci insieme a Louis Armstrong, Dave Brubeck, Duke Ellington e in seguito Wynton Marsalis. Secondo molti fu scelto perché, a differenza per esempio di Miles Davis, non era un musicista politicizzato. La maggior parte dei critici però faticava ancora a capire il suo stile e soprattutto i suoi atteggiamenti schivi e bizzarri. Negli anni si è diffusa la convinzione che Monk soffrì di svariate malattie mentali, dall’autismo alla sindrome di Tourette alla schizofrenia: tutte tesi contestate da Robin Kelley, autore della più completa biografia di Monk. Secondo Kelley, Monk soffrì soprattutto di prescrizioni di farmaci sbagliati, che influirono negativamente sul suo rendimento e lo costrinsero a ritirarsi dalla vita pubblica, all’inizio degli anni Settanta. Visse gli ultimi sei anni della sua vita in una casa di riposo nel New Jersey, e morì d’infarto il 17 febbraio 1982.