Vent’anni senza Roy Lichtenstein

Le sue opere le conosciamo tutti benissimo: fu uno dei maggiori esponenti della Pop Art, diventando celebre – e criticato – soprattutto per le riproduzioni dei fumetti

Roy Lichtenstein (1923 – 1997) di fronte al suo dipinto Whaam! alla Tate Gallery di Londra.
(Wesley/Getty Images)
Roy Lichtenstein (1923 – 1997) di fronte al suo dipinto Whaam! alla Tate Gallery di Londra. (Wesley/Getty Images)

Vent’anni fa oggi moriva Roy Lichtenstein, uno degli artisti più famosi del Novecento. Nacque il 27 ottobre 1923 a New York e fu uno degli artisti principali della cosiddetta Pop Art, diventando molto noto – e contemporaneamente criticato – soprattutto per le opere ispirate ai fumetti che realizzò negli anni Settanta. Alcune delle sue opere saranno in esposizione al Musée Maillol di Parigi fino al 21 gennaio del 2018 nell’ambito della mostra POP ART: Icons that matter. I dipinti di Lichtenstein continuano a suscitare interesse e sono stati venduti anche negli ultimi anni per decine di milioni di euro, nonché riprodotti un’infinità di volte su poster e altri oggetti: anche se sembrano a loro volta riproduzioni, Lichtenstein non utilizzava tecniche meccaniche e i suoi famosi puntini erano dipinti uno ad uno.

Roy Lichtenstein si interessò al disegno fin da bambino. Era nato in una famiglia tipica della media borghesia newyorkese – suo padre era un agente immobiliare e sua madre una casalinga – che riuscì a superare senza traumi gli anni della Depressione. Prese le sue prime lezioni di pittura a 15 anni, alla Parsons School of Design di Manhattan, e anni dopo ricordava che durante le estati della sua adolescenza in un campeggio per ragazzi del Maine passava il tempo a dipingere “acquerelli romantici” del paesaggio. Per permettergli di seguire i suoi interessi artistici, i genitori lo mandarono alla Ohio State University di Columbus, in Ohio, dove seguì corsi di pittura e disegno.

Nel febbraio 1943, a vent’anni, venne chiamato dall’esercito statunitense e assegnato prima alla contraerea e poi a varie altre mansioni, tra cui disegnare mappe e lavorare ai fumetti per il celebre periodico dell’esercito americano Stars and Stripes. Tra il 1944 e il 1945 venne inviato in Inghilterra e poi in Francia. Durante i suoi anni di servizio continuò a dipingere e a disegnare e a visitare i grandi musei europei (alcuni dei suoi quadri più famosi avranno poi temi legati alla guerra). Qualche mese dopo la fine dei combattimenti, Lichtenstein tornò negli Stati Uniti e riprese la sua carriera artistica, esponendo alcune sue opere a Cleveland, in Ohio, e a New York. La vera svolta arrivò nel 1962, con una mostra personale presso il famoso gallerista di New York Leo Castelli. Le sue opere di quegli anni, che sono anche oggi le più conosciute, si ispiravano spesso al mondo del fumetto: di solito, singole vignette di diversi disegnatori venivano reinterpretate da Lichtenstein, che le dipingeva a olio sulla tela in modo lento e accurato, nonostante la superficiale apparenza che si trattasse di semplici riproduzioni. Uno dei dipinti che lo rese più celebre – e che rimase poi tra i suoi più conosciuti – fu Look Mickey del 1961, considerato il primo in cui Lichtenstein si ispirò direttamente a un fumetto (preso da un libro per bambini uscito l’anno prima).

Nonostante i primi successi, la critica e il pubblico ebbero per molto tempo un atteggiamento diffidente verso la sua arte: un citatissimo articolo su di lui apparso su Life nel gennaio 1964 si intitolava “È lui il peggior artista d’America?” (l’autrice Dorothy Seiberling, che in realtà era un’ammiratrice di Lichtenstein, lo scelse con il suo consenso). Secondo molti, i quadri di Lichtenstein erano semplicemente banali. Lichtenstein, da parte sua, difese sempre l’origine banale della sua arte: fumetti, cartoni animati, elettrodomestici, tecniche pubblicitarie. Anni dopo disse, come sempre in tono semiserio: “Nei primi quadri stavo cercando quel tipo di pubblicità da due soldi che si trova sulle Pagine Gialle. Sono state una grande fonte di ispirazione per me”. Restrinse l’uso dei colori alle quattro tonalità delle stampanti e utilizzò moltissimo la tecnica, comune nei fumetti degli anni Cinquanta e Sessanta, dei Ben-Day Dots, pensata in origine per rendere facilmente ed economicamente la varietà dei colori. Pochi mesi fa Sarah Churchwell ha spiegato sul Guardian:

Il suo lavoro mette alla prova le contraddizioni al cuore delle nostre idee sull’arte e sul gusto: la riproduzione permette l’accessibilità e la democratizzazione (buono), ma causa anche ansie sulla banalizzazione e l’eccessiva popolarità (cattivo). Ma la grande popolarità, diceva Lichtenstein, era quello che stava esplorando. […] La sua opera, spiegava, è “pensata per sembrare un falso, e ci riesce, penso”.

Roy Lichtenstein, diventato famoso quando aveva già 38 anni, era una persona ironica come molti dei suoi quadri ed estremamente timida. Era l’opposto del provocatore e strabordante Andy Warhol, l’altro esponente più conosciuto della Pop Art, che più o meno negli stessi anni di Lichtenstein – e senza ancora conoscerlo – aveva cominciato a sperimentare l’uso dei fumetti nell’arte. Negli anni Cinquanta a New York, ad esempio, Lichtenstein frequentava i locali di grandi artisti di quegli anni come Pollock o de Kooning, ma, come scrive la biografia sul sito della fondazione a lui intitolata, “era troppo riservato per entrare in contatto con loro”. Dopo le opere degli anni Sessanta, la sua carriera artistica continuò a lungo e trasse spunto da molto altro: un’altra delle sue serie più famose è formata dalle riproduzioni/adattamenti di celebri quadri di grandi pittori europei come Van Gogh, Picasso e Matisse.