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  • Venerdì 29 settembre 2017

Esiste un diritto alla secessione?

Se ne parla per i referendum sull'indipendenza di curdi e catalani: la risposta breve è no, ma per le molte zone grigie serve la risposta lunga

Una manifestazione a Barcellona (LLUIS GENE/AFP/Getty Images)
Una manifestazione a Barcellona (LLUIS GENE/AFP/Getty Images)

I due referendum sull’indipendenza del Kurdistan Iracheno e della Catalogna – il primo tenuto il 25 settembre, il secondo previsto per l’1 ottobre – sono episodi piuttosto eccezionali nel mondo di oggi: non è per niente usuale che si tengano delle votazioni per decidere la secessione di un territorio dal loro stato, e quando succede si parla sempre di eventi traumatici. Il referendum per l’indipendenza del Kurdistan Iracheno, per esempio, è stato osteggiato dal governo centrale iracheno, oltre che da molti paesi della regione e dagli Stati Uniti, che dei curdi sono alleati; quello per l’indipendenza della Catalogna sta provocando la peggiore crisi politica in Spagna da decenni ed è visto con timore anche da altri paesi europei che sono soggetti a simili spinte separatiste. In queste ultime settimane il dibattito pubblico è ruotato attorno a una domanda centrale: il diritto a separarsi, se la maggioranza degli abitanti di quel territorio lo vuole, è legittimo? È legale?

Non ci sono verità assolute, anche perché da sempre il diritto internazionale si evolve insieme ai cambiamenti del mondo, diciamo: quello che oggi è illegale, domani potrebbe diventare legale; e in ogni caso “legale” e “illegale” sono concetti diversi da “giusto” e “sbagliato”. Va considerato poi che il mondo non funziona sempre secondo le norme del diritto internazionale, le quali nella realtà dei fatti sono dei paletti che gli stati hanno deciso di fissare e che spesso decidono di aggirare. Al di là di queste premesse, qualcosa sui concetti di secessione e principio di autodeterminazione – molto chiacchierati nelle ultime settimane – si può dire, iniziando da questo: non esiste alcun diritto alla secessione espressamente riconosciuto dal diritto internazionale, e il principio di autodeterminazione non funziona come spesso ce lo raccontano.

Due principi che cozzano
«Il moderno sistema internazionale è costruito, in parte, su due idee che finiscono per essere in tensione tra loro: i confini sono sacrosanti e i popoli determinano il loro status politico», hanno scritto Max Fisher e Amanda Taub sul New York Times. Il primo principio, i confini sono sacrosanti, è fondamentale per garantire la sopravvivenza degli stati: se fossero permesse ribellioni, invasioni, annessioni e così via, gli stati sarebbero costantemente in pericolo e l’attuale sistema crollerebbe, provocando caos e violenza. Il secondo principio, il diritto dei popoli a decidere per sé, è molto più recente ed è stato formulato per proteggere i cittadini di un territorio da potenze occupanti, e in misura minore dagli abusi dei dittatori.

Che succede però se la popolazione di un pezzo di territorio – come i curdi iracheni o i catalani – invoca il suo diritto ad autodeterminarsi, parla di secessione e chiede di formare uno stato indipendente? Succede che i due principi si scontrano e che bisogna decidere quale dei due prevalga.

Principio di autodeterminazione e secessione
Intanto bisogna capire cosa s’intende nel diritto internazionale per principio di autodeterminazione, una delle espressioni di cui si è abusato di più nelle ultime settimane.

Il diritto di autodeterminazione dei popoli è stato riconosciuto in diversi documenti, per esempio nella Dichiarazione delle relazioni amichevoli approvata con una risoluzione dell’Assemblea generale dell’ONU nel 1970. La data, il 1970, dovrebbe già dare qualche indizio su quelli che allora erano considerati i principali destinatari di quel diritto: i popoli sottoposti a governi coloniali, la maggior parte dei quali avevano raggiunto l’indipendenza durante gli anni Sessanta. In origine il principio di autodeterminazione dei popoli era soprattutto questo: garantiva ai popoli sottomessi al dominio coloniale di recuperare la propria indipendenza, che si raggiungeva tramite la secessione. Era un fenomeno descritto come “autodeterminazione esterna”. E nei casi in cui non c’era dominio coloniale?

Al di fuori degli episodi di decolonizzazione, il principio di autodeterminazione dei popoli è stato interpretato nel senso di una “autonomia interna”, quindi il diritto a eleggersi un proprio parlamento e ad avere un proprio governo, tra le altre cose, ma non nel senso di creazione di un nuovo stato indipendente. In pratica, secondo questa interpretazione maggioritaria, curdi iracheni e catalani non avrebbero il diritto di invocare il principio di autodeterminazione con il fine di ottenere l’indipendenza: non rientrerebbero nelle ristrette categorie per le quali il principio di scegliere da sé il proprio status politico prevale sull’integrità dei confini. Tra gli studiosi di diritto internazionale, comunque, c’è una corrente minoritaria che riconosce il diritto di un popolo ad esercitare l’”autonomia esterna” nei casi in cui il governo centrale lo discrimini.

Il punto, ha scritto la docente di diritto Milena Sterio sulla rivista specializzata Opinio Juris, è che nessuno, nemmeno questa corrente minoritaria, sostiene che esista tra le norme internazionali un diritto alla secessione: «La secessione è un processo attraverso il quale l’autodeterminazione esterna può essere raggiunta, una cosa che il diritto internazionale al massimo tollera». È un punto importante, perché ribalta il discorso: se non esiste un diritto alla secessione, e non si possono considerare i curdi e i catalani come colonie, cosa rimane? Forse quella corrente minoritaria legata alle discriminazioni compiute dai governi centrali? Chi sostiene questa teoria fa l’esempio del Kosovo.

I vuoti lasciati dal diritto internazionale
Nel 2008, alla fine di molti anni di guerra, gli albanesi kosovari si autoproclamarono indipendenti dalla Serbia. Il loro stato fu immediatamente riconosciuto da diversi paesi del mondo, ma non da tutti e soprattutto non dalla Russia, che nelle guerre dei Balcani aveva appoggiato la Serbia. Ma com’è possibile che oggi il Kosovo sia considerato da mezzo mondo uno stato indipendente se la Russia – membro permanente con potere di veto del Consiglio di Sicurezza dell’ONU – non l’ha mai riconosciuto?

Il punto è che il diritto internazionale non stabilisce dei passaggi attraverso i quali uno stato diventa indipendente: l’indipendenza viene riconosciuta dall’esterno, da chi vuole, e soprattutto è una condizione legata più alla realtà che alla teoria. Se la Catalogna fosse riuscita a ottenere l’appoggio dell’Unione Europea, o degli Stati Uniti per esempio, sarebbe stato tutto diverso: in caso di proclamazione di indipendenza, il nuovo stato catalano avrebbe potuto parlare da pari a pari con altri paesi, anche se il governo spagnolo avesse continuato a considerare la Catalogna come una sua regione. Lo stesso vale per il Kurdistan Iracheno: se i curdi avessero ottenuto l’appoggio degli Stati Uniti, e magari di un altro stato confinante dell’Iraq, avrebbero potuto sfruttare le divisioni regionali per imporsi come entità indipendente. E tutto questo sarebbe successo anche se per il diritto internazionale la condizione di curdi e catalani non rientrava nella categoria dell’autodeterminazione esterna, perché le norme internazionali vengono fatte dagli stati, e sono loro a decidere quando cambiarle.

Il caso del Kosovo viene visto oggi come un’eccezione, più che come un precedente. Non ha creato regole nuove, almeno finora, però ha dimostrato una cosa, se ce ne fosse bisogno: che gli stati possono fare cose al di fuori del diritto internazionale, possono anche rivendicare un inesistente diritto alla secessione, se hanno l’appoggio di qualche paese importante o potente; ha dimostrato che alla fine nel sistema internazionale la politica prevale sul diritto. Ma se non hai né il diritto né la politica dalla tua parte, come nel caso dei catalani e dei curdi iracheni, l’indipendenza diventa un obiettivo praticamente impossibile da raggiungere.