L’Islanda e la sindrome di Down

I test prenatali stanno provocando ovunque una diminuzione dei bambini con la sindrome di Down, ma in alcuni posti più che in altri

(AP Photo/Jacqueline Larma, File)
(AP Photo/Jacqueline Larma, File)

Da alcune settimane si discute di nuovo, su alcuni giornali internazionali e anche in Italia, delle donne che scelgono di interrompere la gravidanza dopo aver ricevuto una risposta positiva al test prenatale circa la presenza di anomalie cromosomiche nel feto. Con la diffusione in tutta Europa e negli Stati Uniti di screening prenatali sempre più accurati e meno invasivi, il numero di bambini nati per esempio con la sindrome di Down (una delle possibili anomalie rilevate dai test) è infatti molto diminuito.

L’occasione della nuova discussione è stato un servizio di CBS sull’Islanda, dove quasi la totalità delle donne che scopre anomalie cromosomiche al feto decide di abortire. Il servizio, e il relativo articolo, sono stati ripresi e commentati su altri giornali e siti anche con titoli falsi e imprecisi (“L’Islanda uccide il 100 per cento dei bambini con la sindrome di Down attraverso l’aborto”, per esempio): e si è tornati a parlare, anche con toni molto aggressivi, di eugenetica, di aborto selettivo, di “sacralità della vita”, di “estinzione dei Down” e così via. La questione, naturalmente, è più complessa di così: ha a che fare anche con la cosiddetta diagnosi genetica pre-impianto, che dà informazioni sulla presenza di eventuali malattie genetiche dell’embrione prima che questo venga impiantato nell’utero, e non riguarda solo l’Islanda.

In Islanda i test di screening prenatale sono stati introdotti nei primi anni 2000: sono facoltativi, ma il governo lavora molto per informare di questa possibilità le donne incinte del paese. Secondo i dati del Landspitali University Hospital di Reykjavik, tra l’80 e l’85 per cento delle donne in gravidanza sceglie di sottoporsi a questo tipo di screening e quasi il 100 per cento di loro, dopo un responso positivo, sceglie di interrompere la gravidanza. Come racconta CBS, quasi la totalità delle donne che si sono sottoposte all’esame il cui esito ha segnalato un indice di rischio di anomalie più alto rispetto a una soglia considerata “normale” ha deciso di abortire. È un loro diritto, visto che la legge in Islanda consente l’aborto anche dopo le sedici settimane in caso di anomalie nel feto, sindrome di Down inclusa.

L’Islanda ha una popolazione di circa 330 mila persone e ha una media di una o due persone all’anno nate con sindrome di Down: non è un caso se sia stato scelto come luogo su cui indagare, visto che dimensioni così ridotte della popolazione permettono di usare paroloni come “estinzione”. Secondo i dati più recenti negli Stati Uniti il tasso di interruzione di gravidanza legato alla rilevazione di sindrome di Down è pari al 67 per cento, in Francia al 77 per cento, nel Regno Unito al 90 per cento e in Danimarca al 98 per cento. Hulda Hjartardottir, capo dell’unità di diagnosi prenatale dell’ospedale universitario di Reykjavik, dove nascono circa il 70 per cento degli islandesi, ha spiegato a CBS che «I neonati con sindrome di Down nascono ancora in Islanda» ma che «alcuni di loro erano risultati a basso rischio nella nostra prova di screening». I test di screening più diffusi (cioè il test combinato del primo trimestre, noto anche come Dual Test) sono accurati solo nell’85-90 per cento dei casi: presentano cioè fino al 15 per cento di mancati riconoscimenti della malformazione. Tra il 2005 e il 2009 in Europa solamente il 64 per cento dei casi di nascituri affetti da sindrome di Down è stato diagnosticato con i test prima della nascita. Inoltre circa il 2,5 per cento dei risultati positivi è falso. Esistono comunque altri esami per avere risposte definitive.

Ci sono vari tipi di test per la diagnosi prenatale e negli ultimi anni ci sono state molte evoluzioni. I test si dividono comunque in due categorie principali: non invasivi e invasivi. I test invasivi – che comportano un prelievo di materiale fetale sul quale condurre test successivi – sono la villocentesi e l’amniocentesi, che comportano però possibili rischi di aborto connessi con il prelievo stesso. I non invasivi sono invece sicuri sia per la donna che per il feto e non forniscono risultati certi, ma una stima del rischio di possibili anomalie (in particolare anomalie cromosomiche). Si parla in questi casi di test di screening, che sono: il test combinato, che consiste in un’ecografia per misurare la translucenza nucale del feto (cioè lo spessore di una sacca di liquido che si trova sotto al collo) e in un prelievo di sangue per il dosaggio di due ormoni di origine placentare; il tri test, cioè un prelievo di sangue per il dosaggio di alcune molecole di origine placentare.

Esiste poi il test del dna fetale che consiste nell’analisi di frammenti di dna di origine placentare che circolano nel sangue della donna a partire dalla decima settimana di gravidanza. Il Non Invasive Prenatal Test (Nipt) consiste in un semplice prelievo del sangue della donna incinta e consente di individuare la presenza di malattie come la sindrome di Down, di Patau e di Edwards: è un test affidabile al 99 per cento (secondo uno studio condotto dal Great Ormond Street Hispital for Children di Londra su più di 2.500 donne a rischio di avere un figlio affetto dalla sindrome di Down) e ha meno dell’1 per cento di falsi positivi. Il test si può eseguire anche in Italia, ma privatamente e a costi che possono raggiungere anche i 900 euro.

Le statistiche relative alle interruzioni di gravidanza in caso di conoscenza di malformazione del feto sono comunque complesse da interpretare e vengono utilizzate in modo diverso da chi è a favore degli screening e da chi è contro. Gli argomenti di questi ultimi sono piuttosto noti e omogenei. Basti citare quanto recita il catechismo della Chiesa cattolica in proposito:

«La diagnosi prenatale è moralmente lecita, se “rispetta la vita e l’integrità dell’embrione e del feto umano ed è orientata alla sua salvaguardia o alla sua guarigione individuale […]. Ma essa è gravemente in contrasto con la legge morale quando contempla l’eventualità, in dipendenza dai risultati, di provocare un aborto: una diagnosi […] non deve equivalere a una sentenza di morte».

Per quanto riguarda chi non la pensa così, in un articolo dedicato a questo argomento la BBC precisa che in generale tutti gli esperti concordano sul fatto che il modo in cui viene presentata una diagnosi di sindrome di Down può influenzare la scelta delle persone coinvolte. Così come la conoscenza intorno a questa anomalia e sui cambiamenti che ci sono stati negli ultimi decenni: è importante sapere per esempio che se nei primi anni Ottanta l’aspettativa di vita per un bambino con sindrome di Down era di 25 anni, oggi è in media circa 60 anni. Lo screening, spiegano alcuni scienziati citati da BBC, non ha l’obiettivo di eliminare dal mondo le persone con la sindrome di Down, ma di fornire alle donne incinte una maggiore consapevolezza e conoscenza nella loro futura scelta. Scelta a cui il test non intende dare una risposta.

Nelle linee guida del ministero della Salute italiano del 2015 si dice per esempio che «il fine del Nipt è quello di fornire informazioni corrette alle coppie che lo desiderano, perché le successive scelte e decisioni, qualunque esse siano, siano fondate su conoscenze il più possibile accurate, precoci e basate su protocolli che non mettono a rischio la gravidanza». E si dice anche che «la consulenza prenatale è parte integrante dello screening mediante Nipt, avendo lo scopo di definire le motivazioni che giustificano il ricorso allo screening, fornire informazioni sulle conoscenze che possono essere acquisite, sui rischi e sui benefici, sulle possibili conseguenze in rapporto alla percezione e all’accettabilità da parte dei genitori delle informative ricevute e delle decisioni da prendere, sulle possibilità di assistenza disponibili e sul percorso per la donna/coppia nel caso in cui il risultato sia patologico».

Nel suo servizio CBS ha intervistato Helga Sol Olafsdottir, che in Islanda fornisce supporto psicologico alle donne che ricevono una risposta positiva al test prenatale e che devono dunque prendere una decisione: «Dico loro “questa è la tua vita e tu hai il diritto di scegliere come sarà la tua vita”».