Storia di un’indagine che non doveva esserci

Quella della procura di Torino su un giornalista della Stampa, che dopo sequestri e perquisizioni è finita in due giorni con delle scuse

(AP Photo/Renato Ferrini)
(AP Photo/Renato Ferrini)

Il giornalista della Stampa Gianluca Paolucci ha raccontato come è andata la breve indagine della procura di Torino sulla pubblicazione di alcuni suoi articoli su Unipol: iniziata con perquisizioni e sequestri a casa sua e nella redazione della Stampa e finita pochi giorni dopo, con le scuse della procura, perché non c’era niente su cui indagare.

Sono stato indagato dalla procura di Torino per un reato che nessuno ha mai commesso. La mia casa e la redazione sono state perquisite, i miei strumenti di lavoro controllati, sequestrati o clonati. Il reato si chiama «violazione del segreto d’ufficio», è contestato a un pubblico ufficiale da individuare e a me in concorso ed è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni.

Quello che segue è il resoconto di quanto accaduto, partendo da due punti entrambi piuttosto inediti. Il primo è che indagine, perquisizioni e sequestri erano frutto di un errore, il secondo che la procura stessa lo ha riconosciuto chiedendo scusa.

L’antefatto
Qualche settimana fa sto prendendo un caffè con un vecchio amico. Mi racconta che per un procedimento nel quale è parte in causa ha richiesto alla procura di Torino l’accesso ad alcuni documenti relativi al processo Fondiaria-Sai e che gli è stato consegnato molto materiale. A quel punto, faccio presente che mi farebbe piacere darci un’occhiata. Si tratta di una vecchia storia, per la quale si è già tenuto il processo di primo grado. Ma magari salta fuori qualcosa d’interessante, chissà. È una sterminata mole di telefonate e brogliacci che coprono un arco di almeno tre anni fino ai primi mesi del 2014.

In mezzo a quei file in effetti qualcosa c’è. Ad esempio, c’è il racconto piuttosto dettagliato di come Unipol, attraverso una azione di lobby e grazie ad alcuni parlamentari di area Pd, fa deragliare la riforma della Rc Auto voluta dal governo Letta nel 2013/2014. Una riforma che aveva lo scopo di abbassare le tariffe assicurative, le più alte d’Europa. Ma invisa alle compagnie perché avrebbe aumentato i costi e abbassato i ricavi. Invisa soprattutto a Unipol, che del mercato Rc Auto è leader con una quota del 25%. A quel punto serve porsi una domanda: ha senso raccontare una storia, per quanto emblematica dei rapporti tra politica e potere economico, vecchia di tre anni e mezzo? La risposta è sì, perché quella riforma finita nel cassetto nel 2014 è riemersa nel Ddl Concorrenza, disgraziato provvedimento di riforme in senso liberale sdoganato solo ieri dal Parlamento. Non senza polemiche anche sulla Rc Auto, per dire. Nella ricostruzione c’è l’evidenza di un rapporto non proprio sano tra politica e affari il cui esito è la difesa degli interessi di una parte a scapito di quelli della collettività. Inizio a ricostruire quella storia, parlo con alcuni dei protagonisti, leggo atti parlamentari, rassegne stampa e lavori preparatori della riforma. La Stampa pubblica due pezzi, il 13 e 14 luglio. La mattina del 13 luglio alle 9.03 arriva la telefonata di Fernando Vacarini, capo ufficio stampa di Unipol, che conosco da tempo. Mi aspetto dure rimostranze, invece la sua prima domanda è: «Hai anche altro?». Ok, abbiamo fatto centro.

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