Perché la paura ci paralizza

È un riflesso inconscio che a molti animali salva la vita, agli umani di solito un po' meno

Gli opossum – qui quello tra i protagonisti di "Fantastic Mr. Fox" di Wes Anderson – sono noti per la loro capacità di fingersi morti in situazioni di pericolo
Gli opossum – qui quello tra i protagonisti di "Fantastic Mr. Fox" di Wes Anderson – sono noti per la loro capacità di fingersi morti in situazioni di pericolo

Quando gli animali si sentono minacciati da un pericolo, possono reagire in tre modi diversi: lo affrontano combattendo, fuggono il più velocemente possibile – queste due cose insieme vengono chiamate reazione “combatti o fuggi” – oppure si paralizzano. Può sembrare controintuitivo, ma in alcuni casi la paralisi può essere la scelta migliore (come mostra il video qui sotto), e in molti altri casi è l’unica scelta possibile.

Anche gli esseri umani possono avere questi tre tipi di reazioni e molto spesso in situazioni di emergenza imprevista si bloccano, anche quando non sarebbe una buona idea: John Leach, uno psicologo dell’Università di Portsmouth che studia il comportamento nei casi di emergenza e tiene corsi ai militari su come sopravvivere in queste situazioni, ha stimato che in situazioni rischiose per la vita circa il 75 per cento delle persone è così sconvolto da essere incapace di pensare razionalmente, e così invece che progettare un piano di fuga si blocca. Solo il 15 per cento delle persone resta calmo e razionale a sufficienza per prendere decisioni che gli salveranno la vita, mentre il restante 10 per cento provoca danni a sé e agli altri agitandosi in modo eccessivo e poco costruttivo.

Ci sono delle ragioni evolutive per cui gli animali, esseri umani compresi, si comportano in un modo o nell’altro, a cui corrispondono delle precise reazioni fisiche che coinvolgono il rilascio di alcune sostanze da parte del cervello. In generale, si attacca quando si pensa di essere in grado di sconfiggere il pericolo che si fronteggia: in questo caso il sistema nervoso simpatico rilascia alcuni ormoni, in particolare l’adrenalina, che aiutano ad affrontare la situazione con tutta la forza possibile, aumentando il ritmo del battito cardiaco e facendo arrivare più sangue ai muscoli. La stessa cosa succede quando si fugge: in questo caso perché il pericolo sembra insormontabile e al tempo stesso sembra esserci una via di fuga.

La terza opzione, quella della paralisi, che è mentale prima che fisica, sembra essere l’unica possibile nei casi in cui non c’è speranza di vincere in uno scontro fisico e pare che manchino le vie di fuga. Capita a molte persone che restano bloccate su una spiaggia a osservare l’avvicinarsi di uno tsunami e ad alcune vittime di aggressioni sessuali. Il responsabile di questa “opzione” è la sostanza grigia periacqueduttale, all’interno del mesencefalo, uno dei pezzi più “primitivi” del cervello. Nel 2013 alcuni neuroscienziati dell’Università di Bristol hanno scoperto che la sostanza grigia periacqueduttale, una volta percepito il pericolo, attiva la piramide, una parte del cervelletto, che blocca il corpo.

I vantaggi della “paralisi” sono più di uno. Il primo è che essere bloccati mentalmente e a livello emotivo aiuta a non rendersi conto di ciò che sta succedendo: alcune sostanze (come le endorfine, comunemente associate a sensazioni di piacere ed euforia) che vengono rilasciate in giro per il corpo funzionano come un analgesico e per questa ragione i traumi fisici e psicologici vengono percepiti con un’intensità minore. Questo comportamento, come si può ben immaginare nel caso delle aggressioni sessuali, è una specie di strategia inconscia di riduzione del danno. Nel caso di un’aggressione – che l’aggressore sia un animale o una persona violenta – non reagire può anche scoraggiare chi sta attaccando dal continuare, in alcuni casi almeno.

In alcune specie animali questo comportamento è abbastanza raffinato. Gli opossum sono famosi per fingersi morti quando si sentono minacciati e non lo fanno semplicemente restando immobili: in modo del tutto involontario cadono su un lato con la bocca aperta e gli occhi spalancati ed emettono una sostanza maleodorante dall’ano, cosa che porta i predatori a pensare che siano morti da tempo e quindi cattivi da mangiare. Una cosa molto simile la fanno anche le specie di serpente del genere Heterodon, che vivono in Nord America. Alcune rane brasiliane (le Ischnocnema aff. henselii) invece si girano a pancia in su, con gli occhi chiusi e le zampe divaricate e stanno ferme così per alcuni minuti; specie di rospi fanno cose simili perché hanno la pelle dell’addome o delle zampe di colori accesi, che suggeriscono la presenza di un veleno ai predatori.

Il problema con la reazione di paralisi di fronte ai pericoli è che in molti casi risulta controproducente, almeno nell’esperienza umana. A causa di questa reazione, a volte solo temporanea, molte persone aspettano troppo tempo prima di correre a mettersi in salvo da un pericolo e per questa ragione muoiono. Durante l’attentato di Londra dello scorso 3 giugno, ad esempio, un poliziotto fuori servizio che ha affrontato gli attentatori ha raccontato di aver visto delle persone reagire al pericolo stando ferme «come cervi di fronte ai fanali di un’automobile». Un altro esempio è quello delle persone che si trovavano agli ultimi piani del World Trade Center l’11 settembre 2001: in media aspettarono cinque minuti prima di scappare.

Negli esseri umani questo comportamento non è dovuto a un semplice blocco dei muscoli, come negli altri animali, almeno non sempre, ma a una più profonda stasi del cervello che impedisce alle persone di pensare razionalmente e quindi prendere iniziative che potrebbero salvare loro la vita. Invece di fare un piano si comportano come se nulla fosse; nel caso dell’11 settembre, uno studio ha stimato che metà dei sopravvissuti si mise in salvo dopo aver fatto cose come telefonare, mettere in ordine i propri cassetti, chiudere il proprio ufficio, andare in bagno, mandare delle email o cambiarsi le scarpe. In questi casi la paralisi mentale non è tanto dovuta al fatto che non ci sia una scelta chiara tra “attacco” e “fuga”, ma al fatto che ci si trova in una situazione imprevista e nuova, oltre che stressante, in cui non si sa bene come reagire. Gli eventi si susseguono in modo troppo veloce perché la risposta delle persone si adegui. Per questo molte persone muoiono nei naufragi o negli incendi. Si pensa anche che in alcuni casi le persone reagiscano bloccandosi per un meccanismo di negazione che, come le endorfine, rende meno doloroso il trovarsi di fronte a un pericolo.

Per limitare l’effetto dei pericoli imprevisti, gli esperti di sicurezza nelle situazioni di emergenza come John Leach consigliano di pensare in anticipo a cosa fare in caso di emergenza. È il senso delle raccomandazioni che vengono fatte ai passeggeri degli aerei prima del decollo (sì, prestare attenzione ogni volta ha senso) e di quelle che vi propongono ai corsi di sicurezza sul lavoro. Un’altra cosa da ricordare è di lasciar perdere i propri oggetti personali, se si trovano in un aereo o in una casa in fiamme. Infine, un buon consiglio è fare dei respiri profondi quando ci si rende conto di essere in pericolo: in questo modo ci si rilassa e si stimolano parti del cervello che controbilanciano l’effetto della sostanza grigia periacqueduttale.