Con le banche venete c’erano alternative?

La situazione si poteva gestire senza usare soldi pubblici, ma sarebbe stato politicamente complesso: e quando il governo lo fece, due anni fa, l'opposizione protestò molto

(ANSA/CLAUDIO PERI)
(ANSA/CLAUDIO PERI)

Ieri sera il governo ha deciso di salvare due banche venete in grosse difficoltà, Popolare di Vicenza e Veneto Banca, spendendo 4,7 miliardi di euro e offrendo garanzie per altri 12 miliardi. Le banche sono state aiutate con soldi pubblici, in deroga alle regole europee che impongono che gli istituti di credito in difficoltà vengano salvati con i soldi di chi ci ha investito, evitando di coinvolgere la fiscalità generale. Presentando il decreto sul salvataggio, il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan ha fatto una domanda retorica ai giornalisti che lo ascoltavano: «C’erano alternative migliori?».

La situazione poteva essere risolta in tre modi. Il primo, piuttosto brutale, era lasciare che le banche – messe in grossa difficoltà da anni di cattiva gestione, dai costi eccessivi e dai cosiddetti “non performing loans” (NPL), cioè debiti difficili da riscuotere – cercassero di risolvere da sole i loro problemi e quindi in ultima istanza fallissero. Sarebbe stato lo scenario peggiore: in caso di fallimento moltissime persone avrebbero perso del tutto i loro risparmi, le aziende che sfruttano le linee di credito della banca si sarebbero trovate improvvisamente costrette a rientrare dei prestiti e infine migliaia di persone avrebbero perso il lavoro.

Tolta di mezzo questa strada ne restavano altre due, entrambe con lo scopo di salvare le banche e permettere loro di continuare a operare in qualche maniera. La prima, quella poi effettivamente percorsa, passava per caricare gran parte della spesa sullo Stato, com’è stato fatto; la seconda era ricorrere al meccanismo cosiddetto di “bail-in”, cioè accollare una maggior quantità di perdite a chi aveva investito nella banca: in sostanza le persone che negli anni avevano deciso di investire i propri risparmi e capitali nell’acquisto di obbligazioni, e in quelle che avevano depositati sul conto corrente più di centomila euro (sembra ce ne fossero parecchi). Secondo il ministro Padoan la soluzione adottata dal governo era l’unica che permettesse di tutelare allo stesso tempo i risparmiatori e la situazione bancaria generale del nostro paese.

Non tutti però sono d’accordo sul fatto che questi obiettivi andassero tutelati allo stesso modo. Chi ha comprato un’obbligazione di Popolare di Vicenza e Veneto Banca, infatti, ha deciso liberamente di “scommettere” sulla banca: ha prestato il suo denaro agli istituti in cambio di un interesse che gli permettesse di trarne un guadagno. Una parte di questi obbligazionisti – i cosiddetti “junior”, cioè quelli che godevano di interessi maggiori – hanno già perso i loro investimenti. Con la sua operazione però il governo ha deciso di proteggere quasi completamente tutti i “senior”, cioè gli obbligazionisti che avevano acquistato titoli in teoria “più sicuri”.

Sulla Stampa i giornalisti Alessandro Barbera e Gianluca Paolucci hanno scritto che «non è vero non ci fossero alternative alla soluzione varata ieri dal governo sulle banche venete». La possibilità di ricorrere al bail-in, cioè a un maggior coinvolgimento degli obbligazionisti senior nel salvataggio, sembrava ancora venerdì scorso l’unica strada possibile, scrivono i due giornalisti. Lo stesso ha scritto Ferdinando Giugliano, commentatore dell’agenzia Bloomberg.

Alla fine questa soluzione è stata scartata a favore di un maggior coinvolgimento pubblico. ll problema per cui in Italia raramente i governi decidono di intervenire sui risparmiatori, preferendo scaricare i costi di operazioni del genere sulla fiscalità generale, è che nel nostro paese le obbligazioni bancarie, in particolare quelle dei piccoli istituti, sono spesso acquistate da famiglie e privati cittadini più o meno inconsapevoli, complice anche un’informazione secondo molti insufficiente sui rischi che comporta questo tipo di prodotti finanziari. Politicamente, quindi, diventa complesso “punire” coloro che decidono di scommettere sulle banche, visto che si parla di persone, famiglie, privati, e non di anonimi fondi d’investimento e società finanziarie.

Quando è stato fatto le strade e le piazze si sono riempite di manifestanti e il governo è stato duramente attaccato sui media e dall’opposizione. Fino a oggi nel nostro paese si ricorda un solo casi di parziale bail-in, di cui furono oggetto nell’autunno del 2015 Banca Etruria, Banca Marche, Carichieti e Carife, le famose “quattro banche popolari”. Nell’operazione migliaia di obbligazionisti si trovarono con i loro investimenti azzerati, e centinaia di loro protestarono per giorni nelle loro città e a Roma sotto le sedi di governo e Parlamento. Le opposizioni, in particolare Movimento 5 Stelle e Lega Nord, appoggiarono con forza la protesta e per mesi il PD fu costretto a difendere la sua scelta di penalizzare gli investitori.

Oltre ai rischi politici, inoltre, ce ne sono di economici. Punire gli investitori delle due banche venete potrebbe spingere molti altri risparmiatori a cercare di vendere strumenti simili che hanno acquistato presso altre piccole banche. Come ha scritto Giugliano, con la scelta di far pagare la collettività «il governo ha voluto evitare il contraccolpo politico e il rischio di un contagio sistemico».

In altre parole, entrambe le alternative che il governo aveva a disposizione presentavano potenziali rischi e svantaggi politici. Anche per questo la crisi delle banche venete, nota da anni, è stata tenuta in sospeso per parecchi mesi mentre il governo si affannava a cercare soluzioni alternative. Nell’aprile 2016 fu creato il Fondo Atlante, un fondo privato ma nato su spinta del governo, che avrebbe dovuto aiutare le banche in difficoltà. Atlante finanziò l’ultimo aumento di capitale delle due banche venete e ha perso fino all’ultimo euro che ci ha investito (Intesa da sola ha perso circa un miliardo in questa operazione). Sulla Stampa Silvia Merler, affiliate fellow del centro di ricerca Bruegel di Bruxelles, ha scritto che nella gestione della crisi da parte del governo «il tratto distintivo è il ritardo nell’affrontare problemi (come MPS) noti da anni», e che «il leitmotiv è una tendenza a subordinare la logica economica a quella politica».

Le istituzioni europee hanno consentito questo atteggiamento. Le regole comunitarie, la famosa direttiva BRRD che introduce il bail-in, stabiliscono che nei salvataggi bancari la fiscalità generale debba essere utilizzata il meno possibile. Per le due banche venete, però, è stata fatta una significativa eccezione: la Commissione Europea e la BCE hanno dato il loro assenso a tutti i passaggi del piano italiano.

È una scelta su cui oggi si interrogano in molti e che, secondo Merler, rischia di avere conseguenze di lungo termine. Da tempo in Europa è in corso una discussione sulla possibilità di realizzare una “unione bancaria” che porti a un sistema finanziario più integrato. Alcuni dei cosiddetti “pilastri” dell’unione bancaria sono già stati realizzati: la vigilanza, per esempio, oggi è centralizzata presso la BCE. Anche il bail-in, che ufficialmente si chiama “meccanismo di risoluzione delle banche in difficoltà” è un altro punto già raggiunto sulla strada dell’unione (ed è quello a cui all’Italia è stato concesso di derogare). Altri importanti passaggi, invece, sono ancora in discussione. È probabile che una volta ultimata l’unione bancaria finisca col favorire in particolare i paesi con i sistemi bancari più fragili, come l’Italia.

Proprio per questo l’unione bancaria non convince molti, tra cui politici e tecnici del nord Europa, secondo cui rischia di diventare un altro sistema per far pagare loro gli errori e le sciatterie finanziarie dei paesi del sud Europa. Secondo Merler, il processo di salvataggio delle due banche venete accrescerà questi timori: «In Italia, molti lo vedranno come un lieto fine. Alcuni lo vedranno per ciò che è, ovvero una scelta politica. In Europa, si capirà che centralizzare la risoluzione bancaria non basta a garantire l’Unione Bancaria se il quadro legislativo sull’insolvenza resta nazionale, e può essere usato per piegare le regole». Come ha commentato Giugliano: «L’unione bancaria è morta ieri sera».