Atleti italiani, da poco

La Stampa racconta la storia dei ragazzi della nazionale di atletica nati in Italia da genitori stranieri e delle loro difficoltà a farsi riconoscere la cittadinanza

(ANSA / MATTEO BAZZI)
(ANSA / MATTEO BAZZI)

Su La Stampa, la giornalista Giulia Zonca ha raccontato la storia dei ragazzi della nazionale di atletica nati da genitori stranieri e delle loro difficoltà a farsi riconoscere la cittadinanza italiana. Oggi i figli di stranieri sono 16 in una squadra formata da 49 atleti. Molti di loro sono nati in Italia, oltre ad esserci cresciuti, ma a causa dell’attuale legge, hanno spesso avuto difficoltà ad ottenere la cittadinanza fino al raggiungimento dei 18 anni, perdendo così in alcuni casi l’occasione di partecipare a gare importanti. Oggi, per ottenere la cittadinanza italiana bisogna risiedere nel nostro paese per almeno dieci anni. Se sarà approvata l’attuale proposta di “ius soli temperato“, in discussione al Senato in queste settimane, sarà sufficiente completare un ciclo di studi scolastici nel nostro paese per ottenere la cittadinanza.

Chi è nato qui e ha aspettato quanto basta per farsi venire una crisi depressiva a 16 anni in attesa di averne finalmente 18, non riesce proprio a capire che cosa ci sia ancora da discutere sullo ius soli.

È lo stupore genuino di chi un’Italia diversa la vede e la vive tutti i giorni sulle piste dell’atletica che da parecchio è ormai mista. Seconda generazione, anche se l’etichetta non piace troppo a questi ragazzi: «La classificazione a ondate è già superata». Basta guardare l’ultimo gruppo azzurro convocato per la Coppa Europa in programma dal 23 giugno: i figli degli stranieri sono 16 su 49 e tra loro c’è chi è nato qui, cresciuto nel nostro sistema scolastico e comunque tenuto in disparte per un’eternità.

«Se ti sposi in questo Paese dopo due anni ti riconoscono, io ho dovuto portare un sacco pieno di vaccinazioni, scontrini con i libri scolastici, testimonianze delle maestre d’asilo per dimostrare di non essermi inventata un’esistenza». Daisy Osakue ha 21 anni, i genitori vengono dalla Nigeria «un posto che non ho mai visto, loro stavano in paranoia. Temevano che un semplice viaggio là potesse complicarmi la vita. Sono nata all’ospedale Mauriziano di Torino. Se le parlo al telefono lei capisce che ho radici africane?». No, si sente una cadenza piemontese mitigata dall’ultimo anno passato in Texas. Si sente una frustrazione che ancora cresce: «Nel 2013 è stata dura, ho iniziato a fare risultati seri, mi sono qualificata nella nazionale allievi solo che non ero italiana, non per la legge. Volevo mollare tutto». Invece oggi è una promettente discobola, a 21 anni la più giovane in gara in Coppa Europa: «Ho resistito anche se ero a pezzi. E non è solo questione di sport. Quello è l’apoteosi perché fatichi, ti appassioni, ottieni le misure e poi stai a casa. Ma vi assicuro che anche solo stare senza il pass 15 era una tortura». Il pass non è documento, ma per un adolescente per natura in cerca del gruppo, che abbia sangue bolognese o albanese, vale di più. Dà diritto agli sconti per gli studenti, ma da ogni «giro di pizza», «film a metà prezzo», Daisy era esclusa, «o mi pagavo l’intero, sembra niente, solo che a furia di sbattere contro l’ignoranza ti fai male». Una volta per la strada le hanno dato della scimmia, lei però un lato positivo lo ha trovato «ero già italiana, ho capito che il passaporto da solo non ti toglie proprio tutti i problemi». Vista dal Texas, dove si è allenata nell’ultimo anno, la gente in parlamento le sembra ancora più assurda. «Siamo antichi, i più arretrati d’Europa. Ma con questa benedetta maglia azzurra finalmente in valigia mi sento più ottimista. Prima o poi una legge decente passerà».

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