Maschilista e femminista non sono parole equivalenti

In molti lo pensano ancora: e la similitudine delle due parole inganna, ma sono concetti molto distanti

di Giulia Siviero

Alcuni recenti articoli del Post che riguardavano il femminismo hanno ricevuto da diversi lettori commenti e reazioni che mostravano un’errata comprensione dei termini “femminista” e “maschilista”, ponendoli sullo stesso piano e dando loro significati speculari e analoghi, alternativi: come faremmo con “europeo” e “americano”, o “conservatore” e “progressista”, e come se il maschilismo chiedesse per gli uomini ciò che il femminismo chiede per le donne. È forse opportuno quindi spiegare meglio che – linguisticamente e storicamente – non è così.

Che cos’è il maschilismo
Il vocabolario Treccani definisce così il “maschilismo”: «Termine, coniato sul modello di femminismo, usato per indicare polemicamente l’adesione a quei comportamenti e atteggiamenti (personali, sociali, culturali) con cui i maschi in genere, o alcuni di essi, esprimerebbero la convinzione di una propria superiorità nei confronti delle donne sul piano intellettuale, psicologico, biologico, ecc. e intenderebbero così giustificare la posizione di privilegio da loro occupata nella società e nella storia». Il dizionario Garzanti: «Atteggiamento psicologico e culturale fondato sulla presunta superiorità dell’uomo sulla donna; comportamento sociale determinato da questo atteggiamento».

Il maschilismo è dunque un atteggiamento che si manifesta in contesti sociali e privati e che si traduce in pratiche quotidiane che possono essere violente, repressive, offensive o anche semplicemente paternalistiche, basate sulla convinzione che gli uomini siano superiori alle donne: partendo da una innata differenza biologica, la minore forza fisica femminile, e dalle sue conseguenze storiche, il maschilismo stabilisce una gerarchia tra uomini e donne, in cui le donne sono considerate “naturalmente” inferiori anche sul piano intellettuale, sociale e politico. Il maschilismo è dunque una forma di sessismo, cioè una discriminazione nei confronti delle persone basata sul genere sessuale. Come ogni discriminazione, trasforma le differenze in pretese di superiorità, confondendo le due cose.

Che cosa non è il femminismo
Per quanto riguarda il femminismo e la sua distinzione dal maschilismo è più immediato dire che cosa non sia: non è, innanzitutto, un atteggiamento psicologico basato su alcune convinzioni. Non è cioè un comportamento basato sul pensiero di una presunta superiorità della donna sull’uomo, né su un’idea di ruoli basata sul sesso, quanto invece su un’analisi storica. Il femminismo è un movimento che ha una nascita (la cui data è oggetto di discussione), più di due secoli di storia e dei soggetti che lo hanno inaugurato e portato avanti. Essendo un movimento storico non ha sinonimi, come non hanno sinonimi l’Illuminismo o il nazionalsocialismo: “egualitarismo”, “umanismo” o “diritti umani” sono concezioni politico-sociali che in qualche caso hanno o hanno avuto con il movimento femminista delle convergenze di contenuti o di finalità, ma che non sono né sostituibili né sovrapponibili a quello specifico processo storico. I contenuti del femminismo sono molto vari e complessi, ma l’obiettivo del femminismo nelle sue varie declinazioni teoriche e pratiche non è quello di affermare una “supremazia delle donne”.

La parola
Non ci sono notizie certe sulla nascita della parola e anzi, quando il femminismo era già praticato la parola non esisteva: si è detto che l’inventore del termine “femminismo” sia stato all’inizio dell’Ottocento il filosofo socialista Charles Fourier, favorevole all’uguaglianza tra uomini e donne, ma sembra che non sia vero. Il termine era secondo alcuni già utilizzato in medicina e indicava un disturbo dello sviluppo negli uomini che aveva a che fare con la loro “virilità” e li faceva sembrare femminili (“femminismo” era dunque inteso come “effeminatezza”).

La parola si ritrova poi in quello stesso periodo nel libro L’Homme-femme del 1872 dello scrittore francese Alexandre Dumas (figlio) in cui dice: «Le femministe, chiedo perdono per il neologismo, dicono: tutto il male viene dal fatto che non si voglia riconoscere che la donna sia uguale all’uomo, che devono avere la stessa istruzione e gli stessi diritti degli uomini». Pur descrivendo le loro ragioni, Dumas usò comunque la parola per sminuire le donne che lottavano per i loro diritti e per essere pari agli uomini. Sembra, infine, che sia stata la suffragetta francese Hubertine Auclert, nel 1882, ad appropriarsi della parola “femminismo” nella sua accezione moderna, rivendicata.

Che cos’è il femminismo
Va detto, semplificando, che a differenza di altri movimenti storici il femminismo è assolutamente originale, per forma, contenuti e modalità, e che (almeno in parte) proprio da questa sua originalità possono nascere le difficoltà di inquadrarlo o i molti equivoci che lo circondano.

Il femminismo non è monolitico, non ha un gesto eclatante che lo abbia inaugurato (paragonabile ad esempio alla presa della Bastiglia), non ha una precisa data di inizio né una data finale. Spesso si scrive che è un movimento carsico, che appare, scompare e poi appare di nuovo e all’improvviso. In realtà secondo alcune pensatrici è più corretto dire che il femminismo è un processo che in alcuni momenti storici si decompone: le protagoniste della sua storia non sono un soggetto politico permanente inserite in un contesto sempre uguale e la peculiarità di quello stesso soggetto viene prima delle altre, è cioè una differenza sessuale, originaria. Nel femminismo ci sono stati momenti di lotta organizzata, identificabili e molto riconoscibili, ma altri no, e senza che questo significasse mai la dispersione dell’eredità politica e teorica precedente.

La terza specificità del femminismo rispetto ad altri movimenti storici è che nel corso del tempo e dei luoghi geografici in cui si è sviluppato ha avuto modi, pratiche, parole e itinerari sempre differenti tra loro, persino conflittuali, molto articolati e complessi tanto che si preferisce parlare di femminismi al plurale, per darne conto in modo più corretto. Infine, nei movimenti femministi teoria e pratica sono sempre andate insieme alimentandosi a vicenda: accostandosi, traendo forza e occasioni anche da saperi diversi e da altri movimenti storici, ma senza mai confondersi con questi. Si potrebbe dire che il femminismo è un movimento che si è sovrapposto alla storia politica dell’Occidente stesso e a tutte le discipline.

Quello che si può affermare con certezza è che il femminismo è nato da una semplice e concreta constatazione: che appartenere al sesso femminile, nascere donne invece che uomini, significa trovarsi al mondo in una posizione di svantaggio, di difficoltà (nei migliori dei casi) e di inferiorità. I femminismi si sono infatti prodotti nel corso della storia a partire dai processi di esclusione a cui le donne sono state sottoposte. Come a dire che uno è il punto di partenza, le donne, che a un certo punto prendono parola e mettono in discussione, per modificarla, una certa relazione di potere.
Semplificando, è perché è sempre esistito il maschilismo, che è cresciuto il femminismo.

La differenza col maschilismo è dunque il suo nascere da una condizione storica di non libertà e di non parità, non dall’auto-attribuzione di una presunta superiorità basata sul genere. Qualche giorno fa sul New York Times, la modella e attrice ceca Paulina Porizkova ha scritto una lettera in cui dice di essere femminista e spiega quando e perché lo è diventata. Racconta che inizialmente pensava che la parola “femminista” fosse superflua: «Lo pensavo perché in quel momento ero una donna svedese». Arrivata in Svezia dalla Cecoslovacchia quando aveva nove anni si accorse da subito che in Svezia il suo «potere era uguale a quello di un maschio», che i compiti domestici erano divisi equamente, che le relazioni sessuali tra uomini e donne erano equilibrate, che la libertà sessuale di una donna non era considerata disdicevole o motivo di giudizio da parte degli altri, che a scuola durante l’ora di educazione sessuale le avevano spiegato la masturbazione e le avevano insegnato che la maternità è una scelta che le donne potevano fare o non fare. In questo contesto la parola “femminista” le sembrava antiquata, le sembrava cioè che non avesse alcun senso. Porizkova racconta poi che in Francia aveva trovato le cose molto diverse così come in America dove, dice, «il corpo di una donna sembrava appartenere a tutti tranne che a lei stessa»: «La sessualità apparteneva al marito, la sua opinione su di sé apparteneva ai suoi ambienti sociali e il suo utero apparteneva al governo. Doveva essere madre, amante e donna di carriera (ma con una retribuzione inferiore) pur rimanendo eternamente giovanile e magra. In America, gli uomini importanti erano desiderabili. Le donne importanti dovevano esserlo». La sua conclusione: «Mi sono unita a quelle donne che intorno a me si stavano sforzando ad avere tutto, fallendo miseramente. Ora non ho altra scelta se non quella di tirare fuori la parola “femminista” dal cassetto polveroso e darle una lucidata».

“A nessuno piace una femminista”
I contenuti del femminismo sono molto vari e complessi, ma l’obiettivo del femminismo nelle sue varie declinazioni teoriche e pratiche non è mai stato quello di affermare una “supremazia delle donne”. Il cosiddetto “conflitto tra i sessi” è stato in certi momenti molto aspro – ci sono state ribellioni e rotture – ma combattuto almeno da una parte senza volontà di prevalere sull’altro. Eppure da molti è così che il femminismo viene considerato, in modo analogo al maschilismo, e definito in modo sprezzante “veterofemminismo”. Parte del problema riguarda l’originalità e l’articolazione stessa dei movimenti femministi che sfuggono a logiche identitarie e monolitiche chiaramente definibili. C’è poi la questione se il femminismo stesso non abbia qualche responsabilità nel fatto di essere così malamente interpretato e il dibattito interno è molto vivace su questo punto. Come fare i conti con una cultura – il maschilismo – che pensandosi superiore si sente diminuita dal femminismo, è un tema.

Parte del problema, secondo alcune, sta però altrove. Oggi è certamente sempre più raro sentire o leggere che “le donne sono inferiori rispetto agli uomini”, ma è molto diffuso, invece, un anti-femminismo che secondo alcune pensatrici non è altro che una forma mascherata di maschilismo: si chiede dunque o di superare la parola “femminista” o le si attribuiscono significati che quella parola non ha mai avuto. Lo ha spiegato bene la scrittrice Chimamanda Ngozi Adichie nel suo libro “Dovremmo essere tutti femministi” secondo cui negare la parola è negare la sostanza:

«Non è facile parlare di genere. È un argomento che crea disagio, a volte persino irritazione. Tanto gli uomini quanto le donne sono restii a discuterne, o si affrettano a liquidare il problema, perché pensare di cambiare lo status quo è sempre una scocciatura. C’è chi chiede: “Perché la parola “femminista”? Perché non dici semplicemente che credi nei diritti umani, o giù di lì?”. Perché non sarebbe onesto. Il femminismo ovviamente è legato al tema dei diritti umani, ma scegliere di usare un’espressione vaga come “diritti umani” vuol dire negare la specificità del problema del genere. Vorrebbe dire tacere che le donne sono state escluse per secoli. Vorrebbe dire negare che il problema del genere riguarda le donne, la condizione dell’essere umano donna, e non dell’essere umano in generale. Per centinaia di anni il mondo ha diviso gli esseri umani in due categorie, per poi escludere o opprimere uno dei due gruppi. È giusto che la soluzione al problema riconosca questo fatto».

Laurie Penny, giornalista britannica che collabora tra l’altro con il Guardian e che è molto attenta alle questioni di genere, si è spinta oltre provando a spiegare la questione della resistenza al femminismo e delle numerose critiche anti-femministe come una deviazione dal reale problema, una nuova forma di negazione:

«A nessuno piace una femminista. Almeno non secondo i ricercatori dell’Università di Toronto; da uno studio è emerso che le persone ancora sono aggrappate ai tipici stereotipi sulle attiviste femministe, stereotipi come “odiatrici-di-uomini” e “poco igieniche”. Questi stereotipi sembra stiano seriamente limitando la possibilità, per le donne, di abbracciare l’impegno per la liberazione della donna come una scelta di vita. Il femminismo è un casino e c’è bisogno di venirne fuori. Per diventare “importante per le giovani donne di oggi” ha bisogno di radersi le gambe e di un nuovo taglio di capelli.

(…) Innanzi tutto c’è la questione della parola femminismo, con la quale alcune persone sembrano avere un problema. Queste persone sentono il bisogno di tenere da conto innanzi tutto i sentimenti degli uomini, quando si parla di lavoro, retribuzione o violenza sessuale, per risultare meno minacciose, più eleganti; meglio parlare di “uguaglianza di genere” se dobbiamo parlare a tutti. Quelli cui interessa mantenere lo status quo preferirebbero vedere le giovani donne che agiscono, come dire, nel modo più grazioso e piacevole possibile; anche quando protestano.

(…) Purtroppo non c’è modo di creare una “nuova immagine” del femminismo senza privarlo della sua energia essenziale, perché il femminismo è duro, impegnativo e pieno di rabbia (giusta). Puoi ammorbidirlo, sessualizzarlo, ma il vero motivo per cui molte persone trovano la parola femminismo spaventosa è che il femminismo è una cosa spaventosa per chiunque goda del privilegio di essere maschio. Il femminismo chiede agli uomini di accettare un mondo in cui non ottengono ossequi speciali semplicemente perché sono nati maschi. Rendere il femminismo più “carino” non lo renderà più facile da digerire.

Lo stereotipo della brutta femminista che nessuno “si farebbe mai” esiste per una ragione: esiste perché è ancora l’ultima, migliore linea di difesa contro qualsiasi donna che è un po’ troppo forte, un po’ troppo interessata alla politica. Allora le si fa notare che se va avanti così, nessuno la amerà mai».