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  • Martedì 13 giugno 2017

Cosa cambia ora per Brexit

Dopo la sconfitta dei Conservatori alle elezioni della scorsa settimana, il primo ministro Theresa May dovrà probabilmente ammorbidire le sue posizioni

Theresa May (JUSTIN TALLIS/AFP/Getty Images)
Theresa May (JUSTIN TALLIS/AFP/Getty Images)

Il nuovo ministro dell’Ambiente del governo britannico, il conservatore Michael Gove, ha dato oggi diverse interviste nelle quali ha parlato molto di Brexit, quel processo che porterà il Regno Unito a uscire dall’Unione Europea. Gove ha usato toni molto cauti e prudenti, necessari dopo la sconfitta elettorale subita dal Partito Conservatore alle ultime elezioni legislative: ha detto che la situazione politica che si è creata ha reso imprescindibile includere nei negoziati su Brexit anche quelli che la pensano diversamente dal suo partito, cioè coloro che vorrebbero un’uscita “morbida” dall’Unione Europea. Gove ha detto che ne sta già discutendo con alcuni parlamentari del Partito Laburista: un atteggiamento pragmatico molto diverso da quello che il partito aveva fino a pochi giorni fa.

Gove, che lo scorso agosto si candidò contro l’attuale primo ministro Theresa May alle primarie dei Conservatori, è un importante leader di partito e uno dei dirigenti che nelle prossime settimane potrebbero cercare di sostituire May. Di una possibile sostituzione di May si parla ormai da diversi giorni: era stata May stessa a indire le elezioni anticipate della scorsa settimana, sicura di poter aumentare il numero dei seggi dei Conservatori in Parlamento, ma poi le cose sono andate diversamente e il suo partito ha perso a sorpresa la maggioranza alla Camera. Gove non è l’unico Conservatore ad essere preoccupato da Brexit. Domenica Michael Heseltine, ex ministro e storico dirigente dei Conservatori, ha detto che Brexit è «il cancro che sta divorando il cuore del Partito Conservatore» e che se la situazione non sarà risolta ci saranno nuove elezioni che potrebbero anche essere vinte dai Laburisti di Jeremy Corbyn. Interviste e dichiarazioni di molti leader Conservatori date in questi giorni sembrano confermare i sospetti di molti opinionisti: cioè che la sconfitta elettorale potrebbe cambiare parecchio i negoziati per uscire dall’Unione Europea.

Esistono sostanzialmente due possibili vie per Brexit: la “hard brexit” e la “soft brexit”. La prima, la “brexit dura”, prevede un’uscita del Regno Unito da tutte le istituzioni e da tutti i trattati europei. Con la “brexit morbida”, invece, il Regno Unito abbandonerebbe l’Unione e le istituzioni europee, come il Parlamento e la Commissione, ma resterebbe membro di alcuni trattati chiave, come quello che regola il mercato unico e che permette la libera circolazione di merci, capitali e persone. Se dovesse passare questa seconda linea, il Regno Unito si troverebbe in sostanza nella situazione di Norvegia e Svizzera, due paesi che sono in parte soggetti alla legislazione europea, ma che non hanno rappresentati all’intero delle istituzioni della UE per modificare queste stesse regole.

Quasi tutti i leader politici britannici vorrebbero mantenere l’accesso almeno al mercato unico. L’Europa riceve il 44 per cento delle esportazioni britanniche e riscrivere un nuovo trattato commerciale tra Regno Unito e Unione Europea che sostituisca il mercato unico rischia di rivelarsi un compito molto complesso. I leader europei, però, hanno chiarito che il Regno Unito non potrà mantenere l’accesso al mercato unico se non accetterà anche la libera circolazione delle persone. Una delle ragioni che hanno portato alla vittoria di Brexit è però stata la prospettiva di rimettere i controlli alle frontiere e diminuire così il numero di immigrati provenienti dall’Europa. La scelta è quindi molto difficile: privilegiare l’economia, e quindi cercare un compromesso per rimanere nel mercato unico, oppure privilegiare il controllo delle frontiere?

Il primo ministro May è a favore della linea dura: nei mesi scorsi ha detto di voler restare parte del mercato unico, ma si è rifiutata di acconsentire a mantenere in vigore la libera circolazione delle persone. Questa linea è esemplificata dal suo motto: «No deal for Britain is better than a bad deal», cioè nessuno accordo è meglio di un cattivo accordo. In sostanza: meglio interrompere bruscamente tutte le relazioni con l’Europa che accettare una Brexit ammorbidita dai trattati di libera circolazione delle persone.

È una posizione che i Conservatori hanno adottato dopo il referendum della scorsa estate – quando si sono accorti che il sostegno per Brexit era molto forte anche tra i loro elettori e che per non perderli a favore dello Ukip era necessario assecondarli – ma potrebbe cambiare a seguito delle elezioni di giovedì in favore di un approccio più pragmatico. Per raggiungere la maggioranza dei voti in Parlamento – maggioranza che serve sia a formare un governo che a portare avanti i negoziati – May dovrà fare dei compromessi con alcune forze politiche contrarie alla “hard brexit”: i deputati Conservatori eletti in Scozia e gli Unionisti nord irlandesi del DUP. La Scozia riceve molti fondi dall’Unione Europea e nel 2016 ha votato a maggioranza a favore del “Remain”, mentre per l’Irlanda del Nord è molto importante che le frontiere con la Repubblica d’Irlanda rimangano aperte: una “hard brexit” con chiusura delle frontiere sarebbe parecchio dannosa per la sua economia. Se May non renderà più flessibile la sua posizione, il governo rischierebbe di non avere i numeri nemmeno per iniziare a governare.

Intanto sono cominciate a circolare alcune ipotesi su come affrontare questa situazione. William Hague – ex ministro degli Esteri, Conservatore favorevole al “Remain” ma allo stesso tempo euroscettico – ha proposto sul Telegraph che d’ora in poi i negoziati di Brexit dovrebbero essere condotti da una commissione parlamentare formata dai componenti di tutti i partiti, e non più esclusivamente dal  governo. È una soluzione appoggiata anche dalla leader del Partito Nazionale Scozzese Nicola Sturgeon e da alcuni parlamentari Laburisti. La posizione dei laburisti e del loro leader Jeremy Corbyn è invece «ambigua per alcuni aspetti», ha scritto il Guardian. In parte è simile a quella del governo, ma differisce su un aspetto chiave: Corbyn ha ripetuto diverse volte negli ultimi giorni che la Brexit dovrà essere una “jobs-first Brexit”. In altre parole, la prima preoccupazione dovrà essere quella di mantenere posti di lavoro nel Regno Unito. Impedire l’entrata dei cittadini europei, quindi, dovrà essere messo in secondo piano.