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  • Martedì 13 giugno 2017

Non è facile essere una donna che va in bici, in Iran

A farlo si rischia anche l'arresto, nonostante non esistano leggi scritte che lo impediscono: lo ha raccontato il Guardian

(BEHROUZ MEHRI/AFP/Getty Images)
(BEHROUZ MEHRI/AFP/Getty Images)

Il Guardian ha pubblicato un articolo sull’uso della bicicletta da parte delle donne in Iran, argomento che di tanto in tanto torna anche sui giornali internazionali. Per i leader religiosi del paese le donne su una bicicletta costituiscono una minaccia per la morale, ma alcune attiviste e altre donne hanno deciso di approfittare delle campagne governative per incoraggiare l’uso della bici a Teheran (dove c’è un grave problema di inquinamento atmosferico e congestione del traffico) per superare uno dei divieti non scritti che le riguarda.

Nell’autunno del 2015, un giovane ambientalista di Arak, una città a sud ovest di Teheran con livelli di inquinamento molto alti, aveva avviato una campagna per incoraggiare le persone a usare la bicicletta. La campagna aveva avuto successo ed era stata ripresa anche in altre città: numerose autorità locali di tutto il paese avevano iniziato a incoraggiare i residenti a lasciare le loro automobili a casa e a usare la bici. Le donne avevano visto in queste campagne ufficiali un’occasione per loro stesse: sostenere una causa condivisa e sulla quale tutti sarebbero stati d’accordo, per legittimare una volta per tutte l’uso della bici da parte delle donne.

In Iran non esiste alcuna legge che vieti ufficialmente alle donne di andare in bicicletta, ma esiste un divieto non scritto. Nel luglio del 2016 alcune donne che volevano partecipare a un evento di ciclismo nella città nord-occidentale di Marivan erano state arrestate dalla polizia e liberate solo dopo essere state costrette a firmare un impegno scritto in cui promettevano che non avrebbero più violato la “norma” e che non avrebbero più usato la bicicletta. I residenti di Marivan avevano successivamente protestato scrivendo una lettera aperta alle autorità locali, le stesse che avevano avviato una campagna ambientalista a favore della bici e contro le auto. La vicepresidente iraniana per gli Affari femminili, Shahindokht Molaverdi, aveva allora pubblicato una fotografia di donne in bicicletta sul suo account di Twitter e sostenuto la causa delle donne.

In un articolo del quotidiano Teheran Times, filo-governativo, una giornalista aveva citato il codice penale e altre sentenze in cui si spiegava che non esisteva nel paese alcun divieto esplicito e normato sull’uso delle bici da parte delle donne e che la regola a cui attenersi era quella generale, in bici o no, sui codici di abbigliamento. La conclusione dell’articolo era dunque che le donne dovevano essere libere di andare in bicicletta per la strada, come tutti. Nel settembre del 2016, però, Ali Khamenei, la Guida suprema iraniana (la principale carica politica e religiosa in Iran) aveva lanciato una fatwa affermando che le donne erano autorizzate ad andare in bicicletta, ma non in pubblico. Questa esplicita imposizione aveva scatenato le reazioni di alcune donne che avevano cominciato a pubblicare fotografie sui social network di loro stesse in sella a una bicicletta, con l’hashtag #IranianWomenLoveCycling. Ed era arrivato il sostegno anche da parte di altre donne nel mondo.

Molte donne avevano cominciato a raccontare la loro storia e la loro reazione alla fatwa: «Il ciclismo fa parte della nostra vita. Eravamo qui quando abbiamo sentito la fatwa di Khamenei che impediva alle donne di andare in bicicletta. Abbiamo subito affittato due biciclette». Un’altra donna aveva pubblicato una fotografia su una mountain bike: «Quando ero bambina, i miei genitori non mi hanno comprato una bicicletta. Hanno detto che una ragazza non va in bicicletta. Ma non ho rinunciato. Salii sulla bicicletta di mio fratello minore. Non ci arrenderemo facilmente». Secondo un’attivista che ha preferito restare anonima e che è stata intervistata dal Guardian le parole di Khamenei sono comunque aperte all’interpretazione: «Credo che quello che intendesse dire era che il ciclismo è un male per le donne solo quando ha cattive conseguenze morali». Ciò che va rispettato sarebbe dunque un “adeguato” codice di abbigliamento. L’applicazione della fatwa, ha poi spiegato, dipende anche molto dalle autorità religiose locali: nelle città più grandi, ad esempio, le donne in bicicletta non rischiano l’arresto.

A livello sportivo per il ciclismo femminile le cose non vanno molto bene: la Federazione Ciclistica del paese conta appena 100 membri donne e in generale, anche nelle città principali, mancano le infrastrutture per una diffusione dell’uso della bicicletta. L’Iran, però, ha una lunga tradizione ciclistica. La bicicletta era un mezzo di trasporto popolare nella prima metà del ventesimo secolo, quando le automobili erano un lusso che pochi potevano permettersi. Negli anni Settanta iniziarono però a diffondersi le automobili e l’uso della bicicletta iniziò a diminuire drasticamente: oggi la maggior parte degli iraniani considera la bici un mezzo di trasporto per poveri, per chi cioè non si può permettere un’auto. Una delle città dove il ciclismo è più diffuso, sicuro e incentivato è Esfahān, nell’Iran centrale: oltre alle piste ciclabili, ci sono sculture colorate che rappresentano delle biciclette negli spazi pubblici e un giorno alla settimana una delle strade principali è chiusa alle macchine per gran parte della giornata. Nonostante questo e nonostante Esfahān abbia uno dei migliori servizi di bike sharing del paese c’è un problema: le donne non possono usufruirne e affittare delle bici.