L’educazione sessuale tra i ragazzi di origine peruviana

Se ne occupa a Milano un pedagogista interculturale, che spiega problemi e differenze con altre comunità

di Marina Petrillo

Massimo Modesti mostra il logo della campagna Safe Love disegnato dal grafico filippino Philip John Monsanto 
(foto Marina Petrillo)
Massimo Modesti mostra il logo della campagna Safe Love disegnato dal grafico filippino Philip John Monsanto (foto Marina Petrillo)

A Milano sta per partire un progetto di educazione sessuale dedicato ai ragazzi di origine peruviana che frequentano i gruppi di danza caporales. L’idea è partita dalla presidente dell’associazione Arci Caporales Santos, Maria del Rosario Montalvo, che, preoccupata per alcuni schemi di comportamento ricorrenti fra i giovani danzatori, ha cercato consiglio per quelli che frequentano il suo gruppo.

Il ballo caporales nacque come neo-folklore in Bolivia negli anni Settanta, e a Milano si pensa che a praticarlo siano circa 200 giovani. «Per i ragazzi, cresciuti in Italia o arrivati qui a 12, 13 o 14 anni, è un modo per recuperare o incontrare per la prima volta un pezzetto della loro cultura d’origine, e per i genitori è un modo per stare tranquilli, per sapere dove sono e chi frequentano, e che sono impegnati in una cosa bella», racconta Massimo Modesti, il pedagogista interculturale che sta coltivando questo progetto fin dall’inizio. «Anzi, a me, che sono appassionato di arte e di forme espressive, sembrava di vedere nei gruppi caporales soltanto aspetti positivi, basti pensare al fatto che si ritiene che siano stati spesso i gruppi di danza, attirando i giovani, a contribuire a svuotare di peruviani le gang latine di cui tanto si parlava a Milano negli anni Novanta». Come lo stesso Modesti ha scoperto incontrando per la prima volta durante un’esibizione in piazza un altro gruppo, la Fraternidad Artistica Sambos Illimani, che è una confraternita internazionale, i gruppi di danza hanno in effetti strutture simili a quelle delle pandillas, le bande armate molto gerarchizzate, e anche loro usano divise, slogan, rituali, incanalando però le energie dei ragazzi in modo diverso e meno pericoloso.

«La prima a notare gli aspetti meno positivi è stata la collega Jessenia Coloma psicologa ed ex ballerina con cui lavoro a questo progetto, che ha appunto origini peruviane» dice Modesti. «La stessa prossimità che tiene così tranquilli i genitori finisce per diventare anche una causa di preoccupazione: i rapporti che nascono all’interno dei gruppi possono diventare a volte troppo intensi, e i genitori sono allarmati dalla frequenza delle gravidanze indesiderate, che fermano il percorso scolastico e professionale di ragazze e ragazzi molto giovani e gravano sulle famiglie».

Al principio, durante i preparativi del Pride a Milano del 2014, a Modesti era venuta l’idea di coinvolgere i gruppi di danza nella parata, anche per integrare le comunità immigrate e le seconde generazioni, con cui stava già lavorando per un progetto rivolto ai ragazzi LGBT figli di immigrati. Questo gli ha permesso di parlare coi genitori, in particolare durante un seminario al consolato peruviano a Milano sulle seconde generazioni, dove ha conosciuto la signora Montalvo. Conoscere più da vicino i gruppi di danza latinoamericani gli ha mostrato il ruolo attivo dei genitori immigrati, che in seguito, durante una festa dei Caporales Santos, gli hanno chiesto di organizzare un incontro con i figli per parlare di affettività e sessualità, e da lì è nata un’idea che si sta concretizzando solo adesso, anche se nel frattempo Modesti ha continuato a lavorare su altre cose collegate, come un progetto contro il razzismo online.

«È passato del tempo, avevamo anche trovato un finanziamento nella zona 8, dove ha sede il gruppo di danza, che però si è rivelato insufficiente, abbiamo tentato varie strade, e poi la situazione ottimale si è creata proprio qui, nel progetto Safe Love, adesso che lavoro ad ALA», l’Associazione Nazionale Lotta all’Aids, storica Onlus che si occupa di sessualità sicura, dipendenze, violenza di genere, bullismo e prostituzione, e che a Milano ha uno sportello per le persone trans. «Qui avevano già esperienza di progetti per esempio di prevenzione delle dipendenze rivolti a specifiche comunità nazionali straniere, e soprattutto la dimensione ideale era che lo stile di ALA è quello di lavorare collaborando alla pari con altre associazioni», in questo caso l’associazione Arci Caporales Santos, che è associata all’Arci.

«Abbiamo tentato di impostare alcuni incontri con i ragazzi alla sede del gruppo di danza, ma ho capito che non è il sistema giusto – i ragazzi tendono a non presentarsi a questi appuntamenti, per quanto informali – quindi adesso la cosa migliore sarà farne un vero progetto di strada, distribuendo materiali informativi per rispondere alle loro domande più basilari, e quiz e giochi – probabilmente a partire dalla metà di giugno – e intanto stiamo avviando una collaborazione con un paio di consultori che specificamente possano ricevere i ragazzi che, entrando in contatto con noi, sentono il bisogno di rivolgersi a qualcuno».

I ragazzi che sono andati agli appuntamenti hanno anche dato una mano a formulare le domande. Benché sia cruciale far capire loro quali rischi corrono e che opportunità hanno, a cominciare dalla contraccezione, «le domande che ci fanno riguardano soprattutto l’affettività: cosa fai quando ti lasci, cose così. E se non hanno informazioni sulla contraccezione, è perché parlarne è ancora un tabù». Il fatto stesso che genitori peruviani immigrati non solo abbiano sentito l’esigenza di offrire ai loro figli maggiori strumenti sull’affettività e la sessualità, ma che per farlo si siano rivolti a chi lavora soprattutto sulla non conformità di genere, la dice lunga su quanto siano sbagliati alcuni stereotipi, e obsolete alcune prese di posizione sulle questioni di genere nella scuola pubblica.

Allo stesso tempo, però, la sorgente di molti dei problemi che nascono fra gli adolescenti peruviani deriva da un retaggio culturale machista, che sorprende per primi i genitori, inconsapevoli del modello che viene trasmesso. «Sai, i genitori hanno questo senso di allarme e questa sensibilità, ma allo stesso tempo non si rendono conto che a volte i ragazzi non fanno che replicare atteggiamenti che hanno visto o intuito in casa o nella comunità; “ma come?”, si dicono, “mio figlio è cresciuto in Italia, non è possibile”: questo fortissimo senso di possesso nei rapporti affettivi, per esempio, coppiette troppo strette anche in età molto giovane; c’è stato il caso di un ragazzo che per non essere lasciato ha fatto in modo in modo di mettere incinta la ragazza. O la romanticizzazione di ogni tratto anche indesiderato dell’amore, che poi è fisiologica per proseguire il modello di una società basata sul nucleo familiare, per cui magari resti scioccato se tua figlia resta incinta, ma poi celebri la coppietta e la nuova famigliola su Facebook insieme a tante altre persone». Modesti aggiunge che alcune questioni drammatiche nella storia peruviana potrebbero avere avuto un impatto sul silenzio che riguarda le parole legate alla sessualità e all’aborto, come la vicenda della sterilizzazione forzata di massa delle donne indigene, avvenuta anche a loro insaputa.

Alcuni problemi sembrano specifici della comunità peruviana, altri sono sorprendentemente simili a quelli che si creano in altre comunità, come quella filippina, anch’essa fortemente cattolica, che Modesti conosce bene. «Vedo più somiglianze che differenze. I filippini semmai hanno altri problemi specifici, come quello drammatico con le metanfetamine, che sono proprio un consumo culturale, diverso da quello italiano. La droga più usata anche qui dai filippini è lo shabu, esattamente come nelle Filippine. Tieni conto che delle persone in carico ai servizi, solo l’1 per cento dei non filippini assume metanfetamine, mentre ne fa uso il 67 per cento dei filippini. Nelle Filippine è un’emergenza nazionale. Ed esattamente come nelle Filippine, anche qui ci sono laboratori di produzione, di solito gestiti da cinesi».

Per quello che riguarda la sessualità, invece, e soprattutto la non conformità di genere, i filippini mostrano un’apertura maggiore verso l’omosessualità e le persone transgender. «Le lesbiche peruviane, per esempio, lamentano molto il machismo culturale del loro paese, e la violenza di genere; allo stesso tempo però, anche se il Perù è un paese in cui con la propria sessualità specifica è difficile emergere, ci sono state molte manifestazioni contro l’omofobia e per i diritti civili, e in parlamento si è discusso di matrimonio egualitario». Tra i filippini, invece, c’è maggiore apertura ai vari orientamenti sessuali, anche se si cerca di evitarne lo stigma sociale: «magari usano parole che mascherano i significati più diretti, per esempio dicono “bisessuale” per definire un uomo che si sente maschio e a cui piacciono i maschi, quindi un omosessuale insomma, ma poi», racconta Massimo ridendo per aver visto questa scena con i suoi occhi a Manila, «sono anche il paese dove durante la tradizionale parata del Nazareno nero, a 500 metri di distanza si svolge a pochi giorni di distanza il concorso di bellezza per trans e cross dresser in costume da bagno».