Parliamo dell’ultimo disco di Kendrick Lamar

Con “Damn.” il rapper più apprezzato in circolazione ha cambiato direzione rispetto a quello che aveva fatto prima, ma a guardare bene è una specie di ritorno

Oggi non ci sono molti artisti considerati, praticamente all’unanimità, i migliori nel loro genere. Da almeno un paio di anni, però, nel rap ce n’è uno: Kendrick Lamar. Il suo disco del 2015 To Pimp a Butterfly, che Lamar ha realizzato a meno di trent’anni, è stato celebrato da tutti i critici come la cosa più matura e originale successa all’hip hop da diversi anni, secondo alcuni dai tempi dei primi dischi di Kanye West. Da questa posizione di egemonia culturale nel rap americano, Lamar ha fatto uscire venerdì scorso Damn., il suo ultimo e ovviamente molto atteso disco: è una delle cose più grosse che succederanno nell’hip hop quest’anno, e in generale nella musica pop del 2017. Damn. è piaciuto, anche qui prevedibilmente, praticamente a tutti, anche se è stato accolto come un cambiamento di direzione rispetto a To Pimp a Butterfly: almeno per ora, l’opinione condivisa è che sia un disco molto bello, ma un po’ meno ambizioso di quello che l’ha preceduto e che lo aveva consacrato. Ma probabilmente era esattamente quello che voleva fare Lamar.

Damn. (c’è il punto alla fine, e anche alla fine di tutti i titoli delle canzoni) è fatto di 14 canzoni, di cui una sola, la prima, funziona come “interludio”, cioè quelle tracce spesso parlate che compaiono in quasi tutti i dischi rap, e non solo. Tutte le altre sono canzoni vere e proprie, scritte e prodotte da Lamar insieme a molti collaboratori: tra i più famosi Rihanna e gli U2, e tra quelli più importanti per il disco Anthony “Top Dawg” Tiffith, Sounwave, DJ Dahi e Mike Will Made It. Il primo singolo del disco è stato “HUMBLE.”, che era uscito a fine marzo ed era stato accompagnato da un video molto apprezzato.

Fin da subito, si era intuito che Damn. sarebbe stato un disco diverso da To Pimp a Butterfly. “HUMBLE.” è una canzone con una struttura e una base semplice e aggressiva, piuttosto “vecchia scuola” se contestualizzata nell’evoluzione dell’hip hop degli ultimi trent’anni. Nella canzone, a emergere sono soprattutto le strofe cantate da Lamar, che ha una tecnica eccezionale e una capacità di scrittura con pochi eguali nel rap contemporaneo. Ma le canzoni del suo disco precedente erano perlopiù diverse: la maggior parte aveva basi strumentali articolate, spesso jazz o funk, che campionavano grandi classici della musica afroamericana degli anni Settanta (come nel caso di “i”, che usava “That Lady” degli Isley Brothers) o che erano state composte da alcuni dei più originali e interessanti jazzisti della nuova generazione, come il sassofonista Kamasi Washington o il bassista Thundercat. I suoni di To Pimp a Butterfly avevano anche influenzato Blackstar, l’ultimo disco di David Bowie, secondo quanto avevano raccontato gli stessi produttori.

Il jazz e il funk, i cori, i sassofoni e i pianoforti, sono praticamente scomparsi in Damn., che ha suoni fatti soprattutto di drum machine (spesso la TR 808, per richiamare direttamente i rap degli anni Ottanta e Novanta) ed effetti, che spesso ricordano il gangsta rap con il quale Lamar è cresciuto all’inizio degli anni Novanta a Los Angeles. In un certo senso, Damn. è il disco di Kendrick Lamar in cui Kendrick Lamar fa di più il rapper: più che in Good Kid, M.A.A.D. City, che uscì nel 2012 e lo mise sulle mappe dell’hip hop mondiale, e che era un disco pieno di canzoni molto melodiche e orecchiabili, nello stile del rap della West Coast di Tupac o Snoop Dogg.

Quello che è cambiato meno, tra To Pimp a ButterflyDamn., è il senso del disco dal punto di vista dei testi, che nel caso di Lamar sono un elemento importante tanto quanto la musica. Il suo disco precedente parlava soprattutto della questione razziale negli Stati Uniti, con testi che si riferivano al mito di Kunta Kinte, il leggendario schiavo afroamericano protagonista del romanzo Radici di Alex Haley, o che attaccavano la polizia per gli abusi compiuti contro i neri negli Stati Uniti. In un verso di “Alright”, per esempio, Lamar diceva “and we hate po-po, wanna kill us dead in the street fo sho’” (“e odiamo la polizia, vogliono ucciderci per strada per davvero”). Lamar cantò “Alright” ai BET Award (dei premi per artisti e sportivi afroamericani) del 2015. La sua esibizione fu criticata in un programma di FOX News, la più importante rete conservatrice americana, e il commentatore Geraldo Rivera disse: «questo è il motivo per cui dico che l’hip hop negli ultimi anni ha fatto più danni ai giovani afroamericani del razzismo».

La frase di Rivera, evidentemente assurda, fu molto ripresa e criticata, anche perché affrontava un tema discusso da anni e ormai superato: quello della violenza nei testi di alcune canzoni rap, che non rappresenta quasi mai un’esortazione, ma è il racconto di una situazione esistente e difficile, in cui vivono moltissimi giovani nella comunità urbana afroamericana negli Stati Uniti. Lamar ha usato la frase di Rivera e altre dette nella trasmissione di Fox News nel suo ultimo disco, in cui affronta di nuovo la questione razziale ma la inserisce in un contesto più ampio e mistico. Lamar è da sempre molto interessato alla religione, e Damn. è il disco in cui ne parla di più. Ci sono tra gli altri riferimenti al Deuteronomio, alla Lettera di Giacomo, ad altri libri della Bibbia e a Dio (che è anche il titolo della penultima canzone). Lamar usa la religione soprattutto per parlare del percorso che ha cercato di compiere per superare le tentazioni ed evitare la dannazione che dà il titolo al disco.

È un tema che compare fin dalle prime parole della prima canzone, “BLOOD.”, nella quale viene presentato il dualismo tra malvagitàdebolezza. Lamar si è creato anche un alter ego, Kung Fu Kenny, una specie di discepolo di arti marziali giapponesi che segue gli insegnamenti di un maestro per compiere un percorso di crescita. Kung Fu Kenny viene citato nei testi di Damn., ed è stato al centro dei visual proiettati durante l’esibizione di Lamar al Coachella dello scorso weekend. Molti critici hanno interpretato questo grande tema di Damn. – oltre che come il racconto di quello che pensa Lamar sulla spiritualità – come una metafora del suo rapporto con la celebrità. Lamar è una figura pubblica abbastanza schiva, che gestisce la sua fama in modo molto più riservato rispetto ad altri rapper che sono stati famosi come lui, da Jay Z a Kanye West. Il ritornello di “HUMBLE.” ripete ossessivamente “siediti, sii umile”, e mostra nel video Lamar seduto a quella che sembra la tavola dell’ultima cena del Vangelo, rimarcando il dualismo tra le tentazioni del successo e la volontà di resistere.

Due tra le canzoni di Damn. di cui si è parlato di più sono state “LOYALTY.” e “XXX.”. Nella prima, Lamar canta insieme a Rihanna: è molto più simile a una canzone di Rihanna che a una canzone di Lamar, ed è la cosa più simile a una hit radiofonica che compare nel disco. La seconda è invece il risultato della collaborazione tra Lamar e gli U2, su cui circolavano perplessità e curiosità: soprattutto negli ultimi anni, gli U2 non sono più considerati una band interessante o alla moda, nonostante la loro importanza nella storia del rock. In molti, dopo l’uscita di Damn., hanno scritto che una delle notizie era che “XXX.” non era una brutta canzone.

Damn., insomma, non ha ridefinito quello che intendiamo come hip hop (come aveva in un certo senso fatto To Pimp a Butterfly), né rappresenta una rivoluzione nello stile di Lamar. È per molti versi un disco rap molto tradizionale, fatto però dal miglior rapper in circolazione: che a guardare bene è anche uno dei più tradizionalisti. Anche se probabilmente nessuno lo aveva fatto bene come lui, non è il primo a mischiare il jazz con l’hip hop. Il suo stile nello scrivere i testi è piuttosto lineare, rispetto a molti altri rapper contemporanei. È anche uno dei pochi che non si fa minimamente influenzare dalla trap e in generale dal rap della scena di Atlanta, in Georgia, caratterizzata da Autotune e bassi molto potenti e piatti sincopati nella base ritmica. Per tutti questi motivi, Lamar era visto anche prima di Damn. come una speranza dagli appassionati del rap “vecchia scuola”, quello degli anni Ottanta e Novanta, che sicuramente hanno apprezzato molto l’ultimo disco. Come ha scritto Justin Charity su The Ringer,

«Kendrick ha passato gli ultimi sei anni reinventando – cinque volte, a questo punto – cosa significa fare un grande disco di rap di Compton, spingendosì così in là da fare invece un’opera jazz con To Pimp a Butterfly. Paragonato al suo capolavoro del 2015, Damn. non sembra un progetto artistico. È molto più legato all’hip hop contemporaneo, senza sentire la necessità di adattarsi a ogni moda di SoundCloud. Damn. dimostra che l’orecchio destro di Lamar è rivolto al passato solo perché quello sinistro è rivolto al futuro dell’hip hop».