Cosa significa essere apolidi

Nel mondo ci sono circa 10 milioni di persone che nessuno stato riconosce come propri cittadini, e la loro è spesso una vita complicata

Rifugiati Rohingya all'interno di un campo profughi in Bangladesh. I Rohingya sono un gruppo etnico di religione musulmana originario nella Birmania, ma molto discriminato nel paese che non li riconosce come cittadini birmani
(Allison Joyce/Getty Images)
Rifugiati Rohingya all'interno di un campo profughi in Bangladesh. I Rohingya sono un gruppo etnico di religione musulmana originario nella Birmania, ma molto discriminato nel paese che non li riconosce come cittadini birmani (Allison Joyce/Getty Images)

Gli apolidi sono le persone che nessuno stato riconosce come propri cittadini: ciò significa che non godono di una serie di diritti né possono partecipare completamente alla vita sociale e politica del paese in cui, di fatto, vivono. Secondo le stime dell’UNHCR (l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati) gli apolidi nel mondo sarebbero circa 10 milioni, ma è difficile avere un quadro preciso, in parte per la natura stessa del fenomeno (che tende a non essere rappresentato nei dati anagrafici) in parte perché solo 78 stati nel mondo hanno comunicato i dati relativi alle persone apolidi sul proprio territorio. Per migliorare la condizione di queste persone, nel 1954 è stata approvata la Convenzione relativa allo Status degli Apolidi che, oltre a definire chi rientra all’interno della categoria, ha stabilito una serie di doveri e diritti fondamentali che gli stati contraenti devono garantire loro.

La parola apolide è di origine greca ed è composta dal prefisso privativo a, che significa senza, e dalla parola pólis, città. La condizione di apolide può dipendere da varie ragioni: in seguito a migrazioni o espatri, per esempio, è possibile perdere la cittadinanza del paese di origine senza avere nel frattempo ottenuto quella del nuovo paese in cui si risiede. Ma nella maggioranza dei casi gli apolidi di persone che non hanno mai lasciato il paese nel quale sono nate: in questi casi essere apolidi deriva da leggi precise, spesso discriminatorie nei confronti di alcune minoranze, come nel caso dei Rohingya in Birmania. I Rohingya sono una popolazione poverissima proveniente dal Bangladesh, ma che vive in Birmania da molte generazioni. Considerati una delle minoranze più perseguitate al mondo, sono musulmani che vivono in un paese a maggioranza buddista, e sono poco meno di un milione in un paese da 50 milioni di abitanti. La maggior parte di loro vive nello Stato di Rakhine, dove dal 2012 si sono verificati molti scontri violenti con la maggioranza buddista. Nel 1982, la giunta militare allora al potere li privò della cittadinanza birmana, accusandoli di essere immigrati dal Bangladesh dopo il 1823, anno in cui la Birmania perse l’indipendenza e divenne una colonia britannica. I Rohingya sostengono invece di essere discendenti dei mercanti musulmani arrivati in Birmania via mare durante il medioevo. Senza la cittadinanza birmana, i Rohingya non possono votare e subiscono limitazioni nell’accesso all’istruzione – motivo per cui molti di loro hanno soltanto un’istruzione religiosa, a volte di tipo fondamentalista – alla sanità e al possesso di terreni.

La condizione degli apolidi è simile a quella dei rifugiati e, come loro, devono veder riconosciuto il loro status di apolide da parte dello stato in cui vivono o dell’UNHCR attraverso una procedura che può avvenire in via amministrativa o giudiziale. Nella Convenzione del 1954 sono stabiliti i diritti garantiti agli apolidi, suddivisi per categorie. Nell’ordine, vengono garantiti i diritti di proprietà, di associazione e di rivolgersi ai tribunali; i diritti legati al lavoro, sia autonomo che dipendente, e l’accesso alle libere professioni; quelli legati al welfare, come il diritto all’alloggio e all’istruzione pubblica; infine i diritti legati ai provvedimenti amministrativi, come avere documenti di identità, di viaggio, essere liberi di muoversi, di trasferire beni e venire naturalizzati cittadini. Nel 2015 l’Italia ha aderito anche alla Convenzione delle Nazioni Unite sulla riduzione dei casi di apolidia, adottata a New York nel 1961: in base a questa convenzione, gli stati contraenti sono tenuti a riconoscere come propri cittadini coloro che nascono sul proprio territorio ma che sarebbero apolidi perché non possono acquisire la cittadinanza da nessuno dei due genitori (per esempio i figli dei cittadini cubani nati in Italia).

Non ci sono dati precisi sulla presenza di apolidi in Italia, ma secondo l’UNHCR la maggioranza si trova all’interno delle comunità Rom provenienti dalla ex Jugoslavia, o tra persone originarie dell’ex URSS, della Palestina, del Tibet, dell’Eritrea e dell’Etiopia. Per quanto riguarda la comunità Rom, nel 2013 la Comunità di Sant’Egidio stimava che circa 15 mila discendenti di persone provenienti dalla ex Jugoslavia fossero privi di documenti e per questo potenzialmente apolidi. Il numero corrisponderebbe più o meno al 10 per cento dei Rom presenti sul territorio italiano e comprenderebbe anche giovani nati in Italia, ma privi della cittadinanza italiana. In questi casi, possono essere vari i fattori che ostacolano sia il riconoscimento della cittadinanza italiana sia lo status di apolide: tra questi la mancata registrazione delle nascite, la perdita dei documenti per i cittadini della ex Jugoslavia o il mancato rilascio del passaporto da parte dei Consolati dei paesi di origine.

Tag: n2g