L’incoerenza dell’Italia sul protezionismo

La spiega Ferdinando Giugliano su Repubblica, notando come ci piaccia molto fino a che non lo fanno gli altri, danneggiando le imprese italiane

(Xinhua/Ding Ting)
(Xinhua/Ding Ting)

Ferdinando Giugliano, su Repubblica del 4 aprile, ha spiegato l’incoerente doppio gioco dell’Italia su globalizzazione e protezionismo, che sembrano piacerci a fasi alterne e fino a quando – come con l’ordine esecutivo di Trump sulle importazioni – a perderci non siamo noi.

È bastato un elenco di possibili ritorsioni commerciali da parte degli Stati Uniti per far riscoprire alla politica italiana il gusto della globalizzazione.
Dopo mesi in cui governo e opposizione si sono baloccati con protezionismo e difesa dell’italianità, la paura che la Casa Bianca possa imporre dazi sulla Vespa o sull’acqua San Pellegrino in risposta al divieto europeo di importare carne agli ormoni ci ha fatto ricordare che siamo, prima di tutto, un Paese di esportatori. Dall’alimentare alla moda fino alla meccanica, sono migliaia le aziende che prosperano grazie alle frontiere aperte. Provare a chiuderle sarebbe uno stupido atto di autolesionismo.
Il problema è che l’obbiettività mostrata dai nostri politici nei confronti della politica commerciale ricorda quella di un tifoso di calcio davanti a un episodio dubbio in area di rigore. Se sono gli imprenditori italiani a vendere prodotti o ad acquistare aziende all’estero, l’arbitro deve sempre lasciar correre. Se le merci o i compratori invece arrivano da fuori, siamo subito lì a reclamare il fallo.
Questa incoerenza è visibile soprattutto nel Movimento 5 Stelle. I grillini dicono di voler proteggere il “Made in Italy”, ma allo stesso tempo si sono schierati contro i trattati commerciali come il Transatlantic Trade and Investment Partnership (Ttip), un accordo di libero scambio tra Ue e Usa fortemente voluto da Barack Obama e ora affossato da Donald Trump. Non è chiaro perché gli altri Paesi debbano essere felici di importare le nostre merci se noi decidiamo di rendere la vita impossibile alle loro esportazioni.
Il revanscismo protezionista, purtroppo, si è fatto largo anche nei palazzi del governo. Non vi è dubbio che l’esecutivo si sia schierato in maniera convinta a favore del Ttip, soprattutto per merito del ministro dello sviluppo economico, Carlo Calenda. Tuttavia questo entusiasmo per la globalizzazione è scomparso nel momento in cui alcune nostre aziende sono divenute obbiettivi di acquirenti stranieri. Ricordiamo tutti la levata di scudi, guidata dallo stesso Calenda, quando la francese Vivendi ha provato a scalare Mediaset. Oppure i tentativi di convincere Poste Italiane a svenarsi per comprare il fondo Pioneer da Unicredit, purché non finisse in mano a un’altra azienda transalpina, Amundi. Tanto è stato l’entusiasmo per il libero mercato che l’amministratore delegato di Poste, Francesco Caio, non si è visto rinnovare il suo mandato dopo essersi opposto a questa e altre operazioni “di sistema”.

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