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  • Lunedì 3 aprile 2017

Non chiamiamoli “lupi solitari”

Il modo in cui vengono definiti gli attentatori dell'ISIS è fuorviante e pericoloso, scrive il Guardian, e non descrive quello che sta succedendo con il terrorismo internazionale

Tre agenti delle forze speciali tedesche a Dresda, in Germania (Arno Burgi/picture-alliance/dpa/AP Images
Tre agenti delle forze speciali tedesche a Dresda, in Germania (Arno Burgi/picture-alliance/dpa/AP Images

Nel corso degli ultimi anni il terrorismo internazionale è cambiato radicalmente: ce ne siamo accorti in Europa, dove lo Stato Islamico ha fatto attentati in diversi paesi, uccidendo centinaia di persone. Le intelligence europee sono state costrette a cambiare il loro modo di lavorare, per esempio hanno dovuto sviluppare competenze nuove, come quelle necessarie per fermare la propaganda estremista online, e la polizia e i governi nazionali hanno dovuto trovare o ripescare dal passato espressioni in grado di definire le nuove minacce. Una di queste, una delle più usate e allo stesso tempo abusate, è “lone wolf”, “lupo solitario” in italiano. Il “lupo solitario” è un individuo che nel compiere un attentato terroristico agisce da solo, senza dipendere direttamente da qualche organizzazione jihadista internazionale.

Questa espressione è entrata nel lessico comune – sui giornali italiani e internazionali, nelle relazioni delle intelligence, nei discorsi dei politici – ed è stata usata negli ultimi due anni per riferirsi alla stragrande maggioranza degli attacchi compiuti in Europa dallo Stato Islamico. Ma c’è un problema: “lupo solitario” non descrive in modo corretto la minaccia terroristica con cui abbiamo a che fare. Non solo: è un’espressione fuorviante. L’abbiamo introdotta perché serviva avere una parola per descrivere un fenomeno nuovo, diverso dagli attacchi terroristici pianificati e organizzati dai vertici di al Qaida, come quelli dell’11 settembre 2001 a New York e Washington. Ed è un’espressione che si è diffusa perché è usata da tutti, sia dai gruppi terroristici che dai governi europei, perché tutti, usandola, ne guadagnano qualcosa. Della storia e delle implicazioni dell’espressione “lupo solitario” ha scritto di recente il giornalista britannico Jason Burke, il corrispondente in Africa per il Guardian: «Usare le parole sbagliate per descrivere i problemi che abbiamo bisogno di capire distorce la percezione pubblica, così come le decisioni prese dai nostri leader. Parlare pigramente di “lupi solitari” oscura la vera natura della minaccia, e ci rende tutti meno sicuri», ha scritto Burke.

C’è tutta una storia dietro all’espressione “lupi solitari”
Oggi colleghiamo i “lupi solitari” ai terroristi islamisti, ma non è sempre stato così. Questa espressione fu introdotta a partire dal Diciannovesimo secolo per raccontare le missioni degli esploratori che dalle Indie Britanniche andavano a scoprire le terre più a ovest. Nella prima metà del Novecento “lupo solitario” divenne il nome di un criminale-diventato-buono protagonista di una serie di romanzi gialli, e poi fu usato dalla stampa statunitense per indicare un uomo ricercato per avere aggredito delle donne in un edificio di Boston. Solo negli anni Sessanta si cominciò a usare “lupi solitari” in relazione al terrorismo sia europeo che statunitense, anche se in maniera sporadica.

Il concetto moderno di “lupi solitari” legato al terrorismo si impose negli Stati Uniti negli anni Ottanta: allora non si parlava però di terrorismo islamista, ma di terrorismo di estrema destra. Nel 1983 il suprematista bianco Louis Beam, membro del Ku Klux Klan e dell’organizzazione neonazista Aryan Nations, pubblicò un manifesto che parlava della “resistenza senza leadership” contro il governo americano, e che probabilmente ispirò l’uomo che fece esplodere una bomba a Oklahoma City nel 1995, uccidendo 168 persone. Un altro ideologo, anch’egli legato all’estremismo di destra, fu Tom Metzler, leader del gruppo neonazista White Aryan Resistance, che pubblicò “Regole per i lupi solitari” e le cui idee si diffusero parecchio negli anni successivi. Le cose cambiarono radicalmente dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, quando si cominciò a identificare la minaccia terroristica con il terrorismo islamista e poco altro. Negli anni successivi l’espressione “lupi solitari” passò di moda.

Louis BeamLouis Beam tra due guardie del corpo a Santa Fe, Texas, il 14 febbraio 1981. Nella foto Beam è in piedi di fronte ad alcuni membri del Ku Klux Klan in abiti militari (AP Photo/Ed Kolenovsky)

Dopo l’11 settembre 2001 cambiò il modo di vedere e affrontare il terrorismo internazionale perché l’Occidente si accorse che al Qaida – che era già un’organizzazione conosciuta e temuta – aveva le capacità di addestrare degli uomini per dirottare aerei commerciali e usarli come armi per colpire obiettivi civili in territorio americano. Come ha spiegato Burke:

«I servizi di sicurezza compilarono organigrammi dei gruppi terroristici. Gli analisti si concentrarono sui singoli terroristi solo se legati a gruppi più grandi. Le relazioni personali – specialmente le amicizie basate su ambizioni condivise ed esperienze sul campo di battaglia, così come i legami famigliari e tribali – furono scambiate erroneamente per relazioni istituzionali, che collegavano i singoli individui alle diverse organizzazioni e li ponevano alla fine di una determinata catena di comando»

La cosa interessante che fa notare Burke è che il minor uso dell’espressione “lupi solitari” non significava necessariamente una scomparsa del fenomeno. C’era il bisogno di trovare dei linguaggi che spiegassero quello che era successo, delle categorie che si potessero applicare alla nuove minacce terroristiche globale portate da al Qaida. “Lupi solitari” non era più sufficiente. Gli stessi governi di molti paesi del mondo preferirono collegare la minaccia terroristica a gruppi e organizzazioni con una certa struttura, di modo da poter giustificare eventuali “guerre al terrore” o altre misure eccezionali anti-terrorismo, anche senza che queste avessero basi legali nelle rispettive legislazioni nazionali (si pensi per esempio alle limitazioni straordinarie della libertà personale che possono essere inflitte ai sospetti terroristi, ma che non possono colpire persone sospettate di altri reati). Di nuovo, il linguaggio usato si era adattato a esigenze politiche e di sicurezza, ma non coincideva necessariamente con la realtà dei fatti. C’era poi un’altra implicazione, ha scritto Burke: ricollegare tutta la minaccia terroristica a una grande organizzazione jihadista come al Qaida, ignorando la complessità del fenomeno, significava suggerire che una volta che al Qaida fosse stata sconfitta militarmente il problema sarebbe stato risolto. Gli ultimi quindici anni di storia hanno dimostrato che era un pensiero sbagliato.

Parliamo di come è cambiata la minaccia terroristica
Dopo l’11 settembre, e per diversi anni, gli attentati terroristici in Europa sono stati trattati solo come attacchi organizzati e pianificati dai vertici di al Qaida, anche se in alcuni casi le indagini successive rivelarono che i legami con la leadership qaidista non erano forti come si pensava (come nell’attentato alla stazione ferroviaria di Atocha a Madrid, nel 2004). Allo stesso tempo, mentre le intelligence di mezzo mondo erano concentrate a smantellare le reti terroristiche, cominciarono a emergere minacce diverse, qualcosa di simile alla “resistenza senza leader” promossa dagli estremisti di estrema destra due decenni prima.

Nel 2008 fu la stessa al Qaida a riconoscere e promuovere la validità di quelli che oggi consideriamo attacchi compiuti da “lupi solitari”: quell’anno Ayman al Zawahiri, che sarebbe diventato il capo di al Qaida dopo l’uccisione di Osama bin Laden, celebrò pubblicamente “La chiamata alla resistenza islamica globale”, un libro dell’ideologo jihadista Abu Musab al Suri che tra le altre cose invitava a compiere attacchi terroristici da soli, anche in assenza di legami o appoggi delle organizzazioni jihadiste. Erano già stati fatti attentati di quel tipo nel contesto della militanza jihadista, ma la celebrazione del libro di al Suri da parte dei vertici di al Qaida fu un punto centrale nello sviluppo dell’ideologia del jihad e soprattutto diede agli analisti e alle agenzie di intelligence occidentali un nuovo punto di riferimento per spiegare come stava cambiando il terrorismo. Burke ha scritto di aver chiesto a otto funzionari dell’antiterrorismo quando hanno sentito per la prima volta l’espressione “lupi solitari” nell’ambito del terrorismo islamista: «Uno mi disse attorno al 2008, tre nel 2009, tre nel 2010 e uno attorno al 2011». Il punto è che non ci fu un preciso punto-di-svolta, ed è anche per questo che il linguaggio fece fatica ad adattarsi ai cambiamenti in atto.

A un certo punto, negli ultimi due anni, l’espressione “lupi solitari” si è definitivamente consolidata nel discorso pubblico e ha cominciato ad affiancare l’idea degli attentati pianificati e diretti dai vertici delle organizzazioni terroristiche. Hanno cominciato a usarla giornalisti, leader politici e capi di agenzie dell’intelligence e dell’antiterrorismo per indicare tutti quegli attentati che non ricadevano nella categoria degli attacchi pianificati, come quelli di Parigi del novembre 2015, compiuti da cittadini francesi e belgi che si erano addestrati in Siria insieme allo Stato Islamico e che poi erano ritornati nei loro paesi d’origine. Per esempio sono stati considerati “lupi solitari” l’attentatore di Nizza, l’uomo che ha investito la folla sul lungomare cittadino lo scorso luglio, e l’attentatore di Berlino, che ha usato la stessa tecnica in un mercatino della capitale tedesca a dicembre. Nessuno dei due era stato addestrato in Siria, ma entrambi si erano radicalizzati con la propaganda dello Stato Islamico ed entrambi erano entrati in contatto con alcuni sostenitori del gruppo. Si potevano considerare “lupi solitari”? Non proprio: avevano agito da soli fino a un certo punto – avevano dei legami con il mondo jihadista – ma allo stesso tempo non avevano collegamenti diretti con i vertici dello Stato Islamico.

Relazione intelligenceUn estratto della Relazione annuale presentata dall’intelligence italiana al Parlamento (PDF), che si riferisce al 2016: nella Relazione i “lupi solitari” sono presentati come una delle minacce terroristiche in Italia.

Gli attentatori di Nizza e Berlino, così come molti altri che hanno compiuto attacchi terroristici in Europa nel corso dell’ultimo anno e mezzo, fanno parte di una zona grigia che non rientra in nessuna delle due categorie, ma che per convenienza è stata spesso associata all’azione dei “lupi solitari”. La giornalista del New York Times Rukmini Callimachi ha cercato di definire con un’altra espressione quello che sta in mezzo tra i “lupi solitari” e gli attacchi strettamente pianificati e diretti dalle organizzazioni terroristiche: in un articolo di inizio febbraio ha parlato di “attacchi telecomandati”.

La prima volta che venne usata l’espressione “attacchi telecomandati” fu nella primavera 2015, quando un giovane studente di tecnologia, Sid Ahmed Ghlam, tentò di sparare dei colpi di arma da fuoco contro una chiesa nel quartiere parigino di Villejuif: l’attentato fallì e Ghlam si sparò in una gamba. Nella sua macchina fu trovato un laptop con dei messaggi che mostravano che l’uomo era stato guidato da due persone legate allo Stato Islamico che gli avevano fornito auto e armi. In un secondo momento si scoprì anche che Ghlam era stato in Siria, e che una volta tornato in Francia aveva pianificato l’attacco sfruttando l’appoggio di una rete criminale locale. Un caso simile fu quello che si verificò nel luglio 2016, quando due uomini presero delle persone in ostaggio in una chiesa di Saint-Étienne-du-Rouvray, in Alta Normandia (Francia), e uccisero un sacerdote. Le indagini rivelarono che i due attentatori non si conoscevano: erano stati presentati poco prima dell’attacco da un uomo che fungeva da “mediatore” e che era in contatto con lo Stato Islamico in Siria.

In entrambi i casi la stampa e le autorità parlarono inizialmente di “lupi solitari” e molti misero anche in dubbio l’autenticità delle rivendicazioni dello Stato Islamico. Fu una scelta affrettata e pigra, che nella maggior parte dei casi non fu corretta nemmeno dopo l’esito delle indagini. Nathaniel Barr, analista di Valens Global, un centro studi che si occupa di terrorismo, ha detto al New York Times che una caratteristica di questo tipo di attacchi è la presenza di “virtual coaches”, “addestratori virtuali”: «I “virtual coaches” sono coloro che guidano e incoraggiano durante tutto il processo – dalla radicalizzazione al reclutamento fino alla pianificazione dell’attacco. Se si guarda alle comunicazioni tra attentatori e “virtual coaches”, ci si accorge che c’è una linea di comunicazione diretta e costante, al punto che l’incitamento dura fino a minuti, a volte secondi prima che l’attentatore compia l’attacco». Bridget Moreng, analista che si occupa di terrorismo, ha detto che il futuro del terrorismo potrebbe essere questo: l’uso di persone o reti criminali che facciano da mediatori e facilitatori tra l’organizzazione estremista e coloro che compiono gli attentati.

Secondo Burke, ci sono dei motivi per cui l’espressione “lupo solitario” si è consolidata e si è estesa fino a essere usata anche in spazi non suoi. Come detto, c’è stato sicuramente un bisogno della stampa e delle autorità di trovare una definizione che descrivesse gli attentati compiuti in solitaria, un modo per farsi capire e per semplificare un fenomeno molto complesso e ancora da comprendere del tutto. Inoltre l’uso di “lupo solitario” si è dimostrato conveniente per molti. I terroristi lo hanno accettato perché in questo modo hanno potuto avvicinare diversi cittadini europei al jihad, senza che loro fossero necessariamente costretti ad andare a combattere in Siria o in Iraq: celebrandoli come “lupi solitari”, i vertici dello Stato Islamico hanno dato loro importanza e allo stesso tempo hanno creato un clima di costante paura in Europa, alimentato dall’idea che chiunque possa uccidere decine di persone mettendosi alla guida di una macchina o un camion. Anche alle agenzie di intelligence e ai governi ha fatto comodo riprendere questa espressione, perché – ha scritto Burke – in un certo senso li ha de-responsabilizzati da eventuali fallimenti: è facile incolpare le forze di sicurezze per non avere scoperto la presenza di una cellula estesa dello Stato Islamico in Europa; è più difficile farlo se passa l’idea che chiunque – anche una persona con qualche precedente penale ma senza condanne per terrorismo, come l’attentatore di Londra – possa compiere un attentato improvvisato e con pochi mezzi.

Questo non significa che non esista il fenomeno dei “lupi solitari”. La decentralizzazione della pianificazione degli attentati terroristici è un fenomeno che abbiamo osservato molto bene in Europa negli ultimi anni, provocata anche dalla straordinaria capacità dello Stato Islamico di creare e diffondere efficacemente la sua propaganda estremista. Burke e molti altri analisti credono però che sia necessario cercare di descrivere le cose con il loro nome, rifiutando le semplificazioni quando queste portano a percezioni o a politiche fondate su presupposti non veri. Perché un conto è avere a che fare con delle persone che subiscono da un giorno all’altro la fascinazione dell’ideologia dello Stato Islamico e decidono di mettere in piedi un attentato usando armi grezze e artigianali; un altro conto è riconoscere la necessità di affrontare l’esistenza di reti criminali e “virtual coaches” legati in qualche maniera allo Stato Islamico, riconoscere l’imperfezione delle nostre società e cercare di rimediare introducendo per esempio complicati programmi di prevenzione e de-radicalizzazione dell’estremismo islamista.