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  • Domenica 26 marzo 2017

Gli yazidi hanno un nuovo problema

Dopo aver subìto un genocidio ad opera dell'ISIS, ora sono finiti in mezzo a un litigio fra PKK e peshmerga, che ha già causato dei morti

di Loveday Morris - The Washington Post

La bara contenente il corpo del 18enne yazida Salam Mukhaibir, mentre viene trasportata verso il monte Sinjar, in Iraq (Alice Martins/For The Washington Post)
La bara contenente il corpo del 18enne yazida Salam Mukhaibir, mentre viene trasportata verso il monte Sinjar, in Iraq (Alice Martins/For The Washington Post)

Mentre la bara di un combattente yazida di 18 anni veniva trasportata in un piccolo tempio ai piedi del monte Sinjar, i suoi parenti cadevano a terra in preda al dolore. La morte di Salam Mukhaibir, avvenuta questo mese, è stata solo l’ultimo episodio di una serie tremenda per la minoranza irachena di etnia curda degli yazidi, che di recente ha subìto un genocidio a opera dello Stato Islamico (o ISIS). Mukhaibir e altri, però, non sono rimasti uccisi durante i combattimenti contro l’ISIS: sono morti negli scontri con le forze peshmerga curde, con cui recentemente sono esplose delle rivalità che covavano da tempo.

Lo Stato Islamico ha invaso la città di Sinjar e i territori circostanti due anni e mezzo fa, uccidendo migliaia di uomini yazidi, che considera apostati. Migliaia di donne sono state rapite e fatte diventare schiave del sesso, e i loro figli risultano ancora scomparsi. Ma i violenti scontri interni alle forze della coalizione che combatte i miliziani dell’ISIS rischiano di ostacolare gli sforzi per riconquistare altri territori e ricostruire zone ridotte in macerie. Questi scontri sono un problema per gli Stati Uniti, che sostengono entrambe le fazioni curde coinvolte – sia i curdi siriani sia gli yazidi – fornendo assistenza militare a loro o ai loro affiliati nella battaglia contro lo Stato Islamico. Per le prospettive di pace, inoltre, questi scontri sono un segnale negativo, che arriva dopo la riconquista di alcuni territori dallo Stato Islamico. Nella vicina Siria, alcune truppe americane si stanno già occupando di impedire i combattimenti tra le forze rivali sostenute dagli Stati Uniti.

Il tradizionale territorio yazida – che si trova in una zona strategica tra Siria, Turchia, e Iraq – è diventato terreno di scontro per le rivalità politiche curde, alimentate dagli interessi in competizione tra loro della Turchia, dell’Iran e del governo iracheno di Baghdad. «Ci sentiamo come un giocattolo nelle mani dei politici», ha detto Khalaf Bahri, uno sceicco religioso yazida, prima di celebrare il rito di sepoltura del giovane combattente ucciso, il cui corpo è stato trasportato in un cimitero su un versante della montagna. «Gli yazidi sono feriti e sanguinano ancora. Le nostre sorelle sono ancora nelle mani dello Stato Islamico, e ora dobbiamo subire questo», ha aggiunto Bahri.

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Gli yazidi uccisi appartenevano alle Unità di resistenza di Sinjar, un forza locale affiliata all’ala militare del Partito dei Lavoratori del Kurdistan, il PKK, un gruppo separatista curdo attivo nella vicina Turchia. Gli Stati Uniti forniscono armi a una coalizione di forze al confine siriano ma guidata da un altro gruppo affiliato al PKK. L’altro fronte è quello dei peshmerga del Rojava, in gran parte curdi siriani diretti dal governo regionale del Kurdistan iracheno, anche loro sostenuti dalla coalizione guidata dagli Stati Uniti nella lotta contro lo Stato Islamico. All’inizio della guerra civile in Siria i peshmerga del Rojava sono scappati in Iraq e non è stato loro permesso di tornare a casa. Ognuna  delle parti accusano l’altra di aver sparato per prima.

Il presidente del Kurdistan iracheno Masoud Barzani ha ripetutamente chiesto al PKK di lasciare l’Iraq. Molti yazidi, però, attribuiscono al gruppo il merito di averli salvati quando le forze peshmerga che avevano il compito di proteggerli hanno abbandonato le loro postazioni opponendo scarsa resistenza durante il massacro dello Stato Islamico nel 2014. Decine di migliaia di yazidi rimasero intrappolati in cima al monte Sinjar, dove si erano rifugiati. Chi non riuscì ad arrivarci fu catturato o ucciso e buttato in una delle decine di fosse comuni che circondano la montagna. L’assedio delle persone bloccate sulla montagna e circondate dai miliziani portò al primo bombardamento aereo in Iraq della coalizione guidata dagli Stati Uniti contro i combattenti dello Stato Islamico. Ma furono il PKK e i suoi affiliati siriani a combattere per aprire un percorso via terra che permettesse agli yazidi di fuggire a piedi. Da allora il PKK si è radicato nel territorio, aprendo scuole e addestrando i combattenti yazidi. Dovunque nella zona si trovano foto di Abdullah Ocalan, il leader del gruppo. Sul versante della montagna c’è un santuario, che di notte viene illuminato, dedicato agli oltre 200 combattenti del PKK e di fazioni schierate con il movimento morti durante i combattimenti avvenuti qui.

Per il governo semiautonomo del Kurdistan nel nord dell’Iraq, Sinjar è parte integrante del territorio, una tesi contestata dal governo iracheno. Molti yazidi si considerano di etnia curda. Dopo la riconquista della città da parte delle forze curde un anno e mezzo fa, Barzani ha detto durante un discorso dai toni trionfanti tenuto sul versante della montagna che l’unica bandiera a poter sventolare sul posto sarebbe stata quella curda. Da allora il suo partito ha allargato la sua influenza, ma al contempo il PKK non se n’è mai andato. «Siamo vulnerabili e in una posizione di debolezza, per questo la gente prenderà un pezzo di pane, una casa o un’arma da chiunque darà loro queste cose», ha detto Bahri, lo sceicco yazida del funerale, che è schierato con le forze formate da yazidi e PKK. «I nostri leader si sono venduti per i soldi».

«Ci hanno tradito»

Mentre le fazioni rivali si contendono l’influenza nella zona, migliaia di yazidi che avevano imbracciato le armi contro lo Stato Islamico si sono uniti ai peshmerga. Hayder Shesho sta integrando nelle fila dei peshmerga mille combattenti yazidi provenienti da una forza di cui è a capo. Shesho ha detto di aver deciso di unire le sue truppe con i peshmerga perché quella «era l’unica porta aperta». Ha raccontato di essere stato arrestato nel 2015, in quello che ha descritto come un tentativo di fargli «pressioni». «Sì, ci hanno tradito e sì, ci hanno abbandonato», ha detto Shesho parlando del partito di maggioranza del governo regionale curdo, «ma siamo curdi», ha poi aggiunto. Shesho ha anche detto che la coalizione guidata dagli Stati Uniti dovrebbe «assumersi la responsabilità» e unire gli yazidi e invitato le forze internazionali a proteggerli. «Nessuno rappresenta gli yazidi», ha detto.

Gli scontri delle ultime settimane hanno rimesso in fuga migliaia di famiglie yazide che erano ritornate nei loro paesi, in alcuni casi spingendole di nuovo sulla montagna dove si erano rifugiate nel 2014. «Siamo poveri. Abbiamo subìto un genocidio», ha detto Gowri Mitchka mentre montava delle tende con venti membri della sua famiglia allargata: «Non vogliamo essere coinvolti in tutto questo. Abbiamo bisogno della pace». Proseguendo sulla strada tortuosa che porta alla montagna qualcuno aveva scritto con una bomboletta spray delle parole che rappresentano i sentimenti di molte persone nella zona: «Lo yazidismo ci unisce, i partiti ci dividono».

Due giorni dopo gli scontri di questo mese i peshmerga hanno creato delle grandi barriere di terra tra le due fazioni, mentre dei soldati limitavano il traffico lungo la strada. Anche l’altro schieramento ha costruito delle difese. Il maggior generale Bahjat Taymis, un comandante peshmerga, ha detto che i combattimenti sono iniziati durante una missione dei peshmerga del Rojava per isolare alcune tratte del contrabbando. Mentre organizzavano una base ai margini del paese di Khana Sour, i combattenti sono stati circondati e dei rinforzi arrivati successivamente sono stati colpiti con armi da fuoco, ha aggiunto Taymis. Il PKK invece ha detto che gli scontri sono iniziati dopo che due dei suoi combattenti sono stati uccisi mentre cercavano di bloccare l’avanzata del convoglio peshmerga. Durante gli scontri cinque yazidi sono rimasti uccisi, stando al PKK e ai comandanti yazidi.

Shesho e i comandanti del PKK hanno detto che la decisione di impiegare una forza straniera – i peshmerga del Rojava, in gran parte siriani – è stata una provocazione intenzionale. Il governo del Kurdistan ha replicato sostenendo di poter impiegare le forze sul suo territorio come meglio crede.

Aggirare le barriere tra i due schieramenti significa attraversare un sentiero di terra ai piedi della montagna. Dall’altra parte i combattenti yazidi hanno organizzato nuove postazioni per i mortai. Invece di puntarli contro lo Stato Islamico, però, sono diretti verso i peshmerga. «Cercheremo per prima cosa di risolvere la questione attraverso il dialogo, ma se non ci riusciremo li combatteremo, perché questa è la volontà del popolo», ha detto Zardasht Shingali, un 30enne comandante del gruppo. «Ci distraggono dalla lotta contro lo Stato Islamico», ha detto Shingali, aggiungendo che gli avversari del gruppo non sono veri peshmerga ma «criminali». «Consideriamo Sinjar parte del Kurdistan e non abbiamo problemi con i peshmerga», ha detto Shingali, «ma queste persone sono dei delinquenti che lavorano per gli interessi della Turchia».

La Turchia considera il PKK un’organizzazione terroristica e ha detto che non permetterà che Sinjar diventi una «nuova Qandil», la catena montuosa nel nord dell’Iraq diventata un nascondiglio per le forze del PKK che compiono attacchi contro lo stato turco. Altre persone sostengono che le Unità di resistenza di Sinjar siano anche influenzate da forze esterne, attraverso il loro rapporto stretto con il PKK e i legami con le forze di mobilitazione popolare del governo iracheno, dominate da milizie sostenute dall’Iran. «Non accetteremo una linea turca o iraniana. La Turchia e l’Iran stanno cercando di trascinare Sinjar in un conflitto regionale, ma Sinjar non lo accetterà», ha detto Mahama Khalil, sindaco di Sinjar che appartiene allo stesso partito del presidente del Kurdistan. Khalil ha aggiunto che il PKK dovrebbe andarsene. Per il governo iracheno, però, la presenza del PKK a Sinjar fa da contrappeso al partito di governo del Kurdistan, e i combattenti yazidi hanno detto che fino alla fine dell’anno scorso è stato il governo iracheno a pagare i loro stipendi.

Confini poco netti

I comandanti delle Unità di resistenza di Sinjar hanno ribadito di essere indipendenti e di essere sostenuti solo dalla loro comunità. Tuttavia, il confine che li separa dal PKK è poco netto, e tra di loro ci sono anche turchi e curdi iraniani. Un curdo iraniano di 35 anni che presidiava un checkpoint ha detto di essersi trasferito dall’ala militare del PKK alla forza yazida 15 mesi fa. Anche un altro combattente 17enne del gruppo ha detto di essere iraniano. Agit Civiyan, un comandante dell’ala militare del PKK a Sinjar, ha detto che alcuni combattenti si erano integrati tra gli yazidi a scopo di «addestramento e formazione», e ha aggiunto che il PKK è pronto ad andarsene quando la sua presenza non sarà più necessaria, ma che per ora gli yazidi hanno ancora bisogno di protezione.

Mentre gli scontri interni proseguono, è stato fatto poco per ricostruire Sinjar – le autorità curde dicono di non poter iniziare finché il PKK non se ne sarà andato – e alcune zone nelle vicinanze sono ancora sotto il controllo dello Stato Islamico. Sulla montagna, Jamil Khalaf ha raccontato di essere stufo di tutte le fazioni. «Noi diamo la colpa a tutti quanti», ha detto, «a loro non interessa di nessun altro al di fuori di loro stessi. Perché si combattono a vicenda quando dovrebbero liberare i nostri paesi?». La famiglia di Khalaf vive in una tenda sulla montagna da due anni e mezzo perché il paese da cui viene, Tal Azair, è ancora controllato dallo Stato Islamico. Due dei suoi figli sono morti quando la tenda della famiglia ha preso fuoco e sua moglie ha faccia e braccia sfregiate per via delle ustioni. Il marito di sua sorella è stato ucciso quando i miliziani sono entrati nel suo paese. «Non vogliamo che queste persone combattano sulla nostra terra», ha detto Khalaf, «ma siamo impotenti. È inevitabile».

© 2017 – The Washington Post