Dove sbaglia Ichino su Minzolini

Luigi Ferrarella critica sul Corriere gli argomenti di alcuni senatori che hanno votato contro la decadenza

Il senatore di Forza Italia Augusto Minzolini (ANSA/GIUSEPPE LAMI)
Il senatore di Forza Italia Augusto Minzolini (ANSA/GIUSEPPE LAMI)

La scorsa settimana il Senato ha respinto la decadenza da senatore di Augusto Minzolini di Forza Italia, con 137 voti contrari. La richiesta di decadenza era stata approvata a maggioranza assoluta dalla Giunta per l’immunità a luglio 2016, in seguito a una condanna definitiva a 2 anni e sei mesi inflitta a Minzolini per peculato continuato. Nei giorni dopo la votazione ci sono state numerose polemiche con accuse al Senato, mosse principalmente dal Movimento 5 Stelle, per avere salvato “uno dei suoi”. Al dibattito hanno contribuito anche alcuni senatori che hanno deciso di votare contro la decadenza di Minzolini, pur facendo parte di partiti diversi dal suo. Tra questi ci sono stati Pietro Ichino e Luigi Manconi del Partito Democratico. Sul Corriere della Sera, il giornalista Luigi Ferrarella ha criticato “la strana logica che si sente pulsare sotto molte delle giustificazioni addotte in Senato” intorno al caso Minzolini, definendola una sorta di “giustizia secondo me”.

Una sorta di «giustizia secondo me» è la logica che si sente pulsare sotto molte delle giustificazioni addotte in Senato per votare contro la decadenza da parlamentare di Augusto Minzolini, conseguenza della sua condanna definitiva a 2 anni e mezzo per peculato alla direzione del Tg1. C’è chi dice di aver ricavato il sentore di «persecuzione» politica del senatore azzurro dalla presenza (nella terna che lo giudicò in Appello) di un giudice rientrato in magistratura dopo essere stato nel Partito popolare italiano e sottosegretario nel governo Prodi. Ma ragionare di «fumus persecutionis» ha senso all’inizio di una inchiesta nella quale venga eventualmente chiesta la custodia cautelare per un eletto dal popolo, non quando c’è una sentenza definitiva al termine dei tre gradi di giudizio. E, soprattutto, già nel processo l’imputato ha facoltà di chiedere l’astensione (e la sostituzione) del giudice di cui paventi la non imparzialità, come di recente accaduto su istanza di Eni in un processo per tangenti internazionali: se il giudice non si astiene, l’imputato può chiederne la ricusazione alla Corte d’appello (come appena fatto da un imputato di terrorismo internazionale), contro il cui diniego può ulteriormente ricorrere in Cassazione. Ma se nulla di tutto ciò fu attivato da Minzolini nel suo processo, è singolare che ora in Parlamento si riesumi un argomento nemmeno coltivato dall’interessato.

Viene poi additata come sospetta la pena in quanto fissata sopra il tetto dei 2 anni che fa scattare la legge Severino: ma le sentenze non sono bizzosi oracoli pronunciati da giudici imperscrutabili, bensì percorsi argomentativi di cui i giudici rendono obbligatorio conto nella motivazione affinché la tenuta logica sia controllata (come qui è poi stata) in Cassazione.

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