Paula Baudet Vivanco è cilena ma anche italiana

Arrivata a Roma da bambina per scappare dalle persecuzioni del regime di Pinochet, ha fondato nel 2005 la Rete G2 ed è oggi una dei punti di riferimento del movimento Italiani senza cittadinanza

di Marina Petrillo

Paula Baudet Vivanco durante la manifestazione del 28 febbraio in piazza del Pantheon a Roma
(ANSA)
Paula Baudet Vivanco durante la manifestazione del 28 febbraio in piazza del Pantheon a Roma (ANSA)

Paula Baudet Vivanco è cilena ma anche italiana, e la sua città è Roma, dove oggi i ventenni delle seconde generazioni tengono un sit-in alla settimana per convincere i senatori a sbloccare la nuova legge sulla cittadinanza. Quando lei se l’è vista rifiutata nel 2005 per motivi di reddito nonostante fosse in Italia da quando aveva sette anni, ha deciso di fondare la Rete G2. Esperienza oggi considerata superata, la Rete G2 è stata la capostipite dei movimenti dei giovani stranieri nati in Italia o arrivati da piccoli, e li ha resi per la prima volta visibili come soggetto politico. Oggi, i ventenni nei movimenti suoi eredi guardano a Baudet Vivanco come a un’ispirazione, e lei è alla guida del movimento Italiani Senza Cittadinanza. È segretaria nazionale dell’ANSI (Associazione Nazionale Stampa Interculturale) e ha ottenuto la cittadinanza italiana solo qualche anno fa, quando ha sposato il suo compagno italiano. Ha due figli e oggi si concentra sui diritti della terza generazione.

La sua storia personale segue trent’anni di immigrazione e di cambiamenti nella legislazione. Quando arrivò in Italia da bambina nel 1982, con i genitori che fuggivano dalle persecuzioni del regime di Pinochet, non parlava una parola di italiano. «I miei non avevano scelta», racconta, «bisognava andare via. In Cile facevano parte del partito Unidad Popular di Salvador Allende. Io e mio fratello capivamo quello che stava succedendo, sentivamo il clima in casa. Mio padre aveva già subito un arresto durante il golpe contro Allende del 1973, e mia madre, che era la figura di riferimento della famiglia, stava perdendo il suo lavoro alla facoltà di Belle Arti. Erano in pericolo e volevano anche garantire un futuro a noi, così, uno architetto e l’altra insegnante di storia dell’arte, per affinità scelsero Roma». Quando arrivarono in Italia erano fra i pochissimi immigrati stranieri. Sia perché qui avevano trovato asilo alcuni connazionali famosi, come il gruppo musicale degli Inti Illimani, sia perché i movimenti italiani di estrema sinistra si erano impegnati molto nel sostegno alla resistenza contro il regime, molti cileni in fuga dal regime di Pinochet scelsero l’Italia, mentre di immigrati di altre provenienze se ne vedevano allora pochi.

Il fratello maggiore di Paula, che aveva già undici anni e subì più dolorosamente il distacco dal Cile, ha una storia esemplare: «Diventato maggiorenne ha frequentato la scuola di cinema dei Tre Mondi a Cuba, poi ha lavorato in Messico e in Colombia. Fa il montatore ed è rimasto a lavorare in America Latina, ma allo stesso tempo, se lo senti, parla romanesco, sa imitare alla perfezione Alberto Sordi, e la sua passione per il cinema viene proprio dal Neorealismo italiano e dalla Nouvelle Vague francese che vedeva in Italia».

«Mia madre ci aveva portato via anche perché era preoccupata dal fatto che alle manifestazioni in Cile ci fossero già ragazzini dell’età di mio fratello che rischiavano la vita tirando i sassi. Per me che ero più piccola è stata dura soprattutto all’inizio, perché ho dovuto lasciare la mia nonna materna a cui ero molto legata. Ma avevamo tutti fiducia nel giudizio di mia madre, che in fondo stava cercando di trasformare un incubo in un sogno. La prima impressione fu quella di vivere in spazi piccolissimi. Abituati alle strade gigantesche e ai grandi spazi negli appartamenti di Santiago del Cile, trovavamo Roma bellissima ma angusta, stretta, le stanze piccolissime. Io credo che i miei avessero sempre pensato di ritornare in Cile, prima o poi. Per questo arrivammo in Italia senza nemmeno chiedere asilo politico, come facevano invece gli altri cileni. Eravamo immigrati economici, con il permesso di soggiorno. Ma mia madre era molto realista, e voleva anche che vivessimo pienamente dove eravamo, nella nostra nuova realtà. Poi, dopo la legge Turco-Napolitano, già non era semplice, la legge Bossi-Fini ha reso sempre più difficile restare in Italia, e ci ha obbligato a rinnovi più frequenti del permesso di soggiorno».

Per chi non l’ha provato, è difficile immaginare come un bambino assorba questo senso di precarietà. «Dopo tanti anni, dopo essere cresciuti in Italia», ricorda Paula, «non solo eravamo ancora sospesi, ma sembrava che le cose non solo non cambiassero, ma tendessero a peggiorare. Restare, invece che diventare più facile, diventava più difficile. Era faticoso e ingiusto. Dovevamo continuamente chiedere il permesso di esistere qui. Dovevi lottare per non essere cacciato. Tu sei assolutamente certo di far parte di questo paese, e invece è proprio il paese che dubita di te e non ti vuole. E i ragazzini sentono le difficoltà, l’eterna incertezza dei genitori, l’impossibilità di fare programmi. Di solito sono fantasmi che rispuntano quando si è adolescenti, ma anche i bambini sentono le tensioni. L’insicurezza ti entra nelle ossa, quella sensazione di rischio. E penso spesso che almeno noi, cileni, di lingua spagnola, avevamo gli strumenti per cavarcela un po’ meglio degli altri – certi strumenti culturali, professionali, una lingua facile da imparare perché neolatina, e anche un’opportunità di mimetizzarci fisicamente, per via dei nostri tratti somatici. È molto più complesso per chi non somiglia agli italiani. Ti vedi costantemente specchiato nello sguardo degli altri. Tu sei cileno e anche italiano, e non è che ci pensi troppo, sono le esperienze che fai che pian piano ti integrano. Ma tutte le domande vengono da lì, dall’esterno, dallo sguardo degli altri. Per fortuna i tempi sono cambiati e oggi anche le scuole hanno trovato degli strumenti per gestire queste situazioni».

Per alcuni aspetti, invece, la burocrazia italiana è leggermente migliorata, o almeno, col tempo è diventata un po’ meno arbitraria. «Ogni fase storica ha le sue difficoltà», dice Baudet Vivanco, «quando ero bambina anche le regole erano difficili da capire, si facevano lunghe code per niente alla questura, i permessi di soggiorno andavano rinnovati di sei mesi in sei mesi; non esistevano percorsi rodati per chi non parlava italiano. Oggi è un po’ più facile perché siamo in tanti, di tante culture e colori, ma è anche vero che quando sono arrivata io da bambina non c’erano i discorsi d’odio che si sentono adesso e che i politici stanno fomentando ad arte. Non venivamo discriminati o attaccati, e non sentivamo ostilità».

Quando al raggiungimento della maggiore età, Paula Baudet Vivanco si vide rifiutare la richiesta di cittadinanza per motivi economici, scoprì che «per diventare cittadini italiani bisognava dimostrare di avere un certo reddito. Così, all’improvviso, avevo diciotto anni, ero in Italia da undici, ma il mio status di immigrata era uguale a quello di una bambina di sette anni che fosse appena immigrata per lavorare! È stato quello a spingermi a fondare la Rete G2».

Baudet Vivanco ricorda che i bambini italiani figli di stranieri che non hanno il passaporto italiano sono 800 mila. «Non siamo un’invasione, ma è anche vero che la nostra presenza è diventata strutturale. Per la maggior parte questi ragazzi sono ancora studenti, esposti ai discorsi d’odio che fomentano il razzismo e che li rendono ancora più vulnerabili di quanto non siano già. E finché non possono votare, non possono realmente partecipare alle decisioni che vengono prese su di loro. Molti hanno vent’anni, e sono più consapevoli di quanto fossimo noi. Hanno bisogno di vedersi riconosciuti, di sentirsi radicati, e allo stesso tempo guardano fuori dall’Italia, proprio come fanno i ragazzi italiani. Non poter uscire, non poter viaggiare per studio o per lavoro, è una seria limitazione per loro. In confronto a noi sono ancora più attivi, sono impegnati nell’associazionismo, sono brillanti e si danno da fare, sono molto consapevoli, e anche allegri, e sono molto curiosi degli strumenti della politica – anzi», aggiunge ridendo, «se c’è una cosa in cui sono tipicamente italiani, è proprio la passione per la discussione politica, per il confronto, quel tipo di dialettica. E oggi sono in grande fermento. Sono molto indipendenti, prendono l’iniziativa. In molti sensi, sono perfetti cittadini mancati».

Le seconde generazioni di oggi sono in contatto con le seconde generazioni di altre città e capitali, come Londra, e c’è un aspetto della cittadinanza che per loro è più rilevante di un tempo, la questione della cittadinanza europea. «Per loro è fondamentale», dice Paula. «Crescono sentendo parlare del progetto Erasmus dai loro compagni, che fanno soggiorni di studio nelle università di altri paesi, e si sentono parte di un territorio più grande dell’Italia. Paradossalmente, non possono esplorare il mondo finché non vengono riconosciuti come italiani. Il motore che li muove è un senso di ingiustizia. Io spero che la nuova legge passi prima delle prossime elezioni, perché il nostro paese ha bisogno della qualità di partecipazione di questi giovani».

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