Chinatown, Milano

Uno dei primi quartieri in Europa dove le comunità cinesi si sono stabilite e dove oggi commercianti italiani e cinesi collaborano in molte iniziative comuni

di Marina Petrillo

Due bambini della scuola elementare di via Giusti, a Milano 
(foto Marina Petrillo)
Due bambini della scuola elementare di via Giusti, a Milano (foto Marina Petrillo)

Gli adolescenti cinesi schiamazzano sul tram all’uscita da scuola, mostrandosi a vicenda i video sugli smartphone, parlando italiano con accento milanese. La loro Chinatown, la zona che va da via Paolo Sarpi a via Canonica, è una delle più antiche d’Europa, e a Milano non è più da tempo un quartiere di nuovo aspetto, ma un pezzo di storia cittadina consolidata. All’inizio del Novecento fu uno dei primi insediamenti dei cinesi che arrivavano dalla provincia dello Zhejiang. Erano impiegati sulle navi che trasportavano seta e cotone, e restavano a lavorare per gli impianti tessili ottocenteschi europei, dall’Inghilterra a Como. Oggi i genitori dei ragazzini sul tram gestiscono negozi di abbigliamento, elettronica o manicure, ristoranti, servizi di telefonia, farmacie, librerie, agenzie di viaggi. Dopo un lungo periodo di grigiore nei primi anni Duemila, nel quartiere oggi sono molto più visibili sia le insegne cinesi, sia i recuperi dei vecchi laboratori nei cortili per studi di architettura, design e produzione cinematografica. Nell’aprile del 2007, alcune forti tensioni sono culminate in una rivolta di strada. I comitati di residenti – il quartiere continua a essere abitato da entrambe le comunità, italiana e cinese – si lamentavano che la concentrazione di grossisti cinesi stesse snaturando il quartiere. Oggi le attività di carico e scarico sono regolate, e gli artigiani italiani rimasti collaborano con i commercianti cinesi a molte iniziative comuni. Il quartiere ha un festival cinematografico, un suo giornale, e conta decine di associazioni culturali. Via Paolo Sarpi è diventata una lunga isola pedonale, che a febbraio è adorna di lanterne rosse per festeggiare il Capodanno cinese e negli altri giorni ospita locali frequentati. Al civico 27 c’è Hujian Zouh Agie, laureato all’università Bocconi di 35 anni, che l’anno scorso ha vinto il premio street food del Gambero Rosso con la sua piccola bottega di ravioli cinesi, fatti a mano con gli ingredienti piemontesi del suo vicino macellaio.

Se era già molto tipico delle comunità cinesi avere come portavoce le camere di commercio, dal 2014 la faccia del cambiamento è quella delle seconde generazioni di imprenditori trenta-quarantenni sino-milanesi dell’UNIIC (Unione Imprenditori Italia Cina). «Sanno il dialetto della provincia d’origine ma magari hanno difficoltà col mandarino scritto», racconta Antonio Talia, giornalista di Informant e per sette anni corrispondente da Pechino. «Sono cittadini del mondo e intraprendenti. Loro si definiscono Italian World Chinese. La nuova identità sino-milanese è molto attenta alla moda di Seul, all’estetica e alle tendenze asiatiche, non necessariamente cinesi. Tradizionalmente, a Milano sono sempre arrivati dal Zhejiang, ma adesso vengono anche da Shanghai, dalla rust belt cinese, e dal Dongbei arrivano molte donne che vengono a fare le tate. Ci sono ancora pochissimi matrimoni misti, ma l’essere sino-italiani oggi rappresenta un’identità a sé stante, mutante, duale, che non è italiana e non è cinese. Le ultime generazioni, quando tornano in Cina, dove vanno per tenersi al passo con i velocissimi cambiamenti del paese, sono vittime di un razzismo di ritorno: in Cina li chiamano banana, gialli fuori ma bianchi dentro».

Forse anche per questo è in corso un revival delle scuole cinesi, veri e propri doposcuola per bambini cinesi che servono a non perdere del tutto il legame con la cultura di provenienza. «La prima volta che sono entrata in una scuola cinese, è stata una grande sorpresa,» dice la logopedista Valentina Draghi. «Sali una scala, entri in un appartamento, e all’improvviso, Milano non c’è più. Senti i bambini che provano le loro canzoni, e sei in Cina». I bambini cinesi non solo hanno a che fare con due lingue diverse, ma anche con due alfabeti. «Nella scrittura ideografica, dove una composizione di elementi forma una parola», dice Valentina, «non c’è costruzione con le lettere, e questo significa che, nella lettura e nella scrittura, un bambino italiano una volta che ha conquistato l’alfabeto può virtualmente costruire già tutte le parole; i suoi progressi si misurano solo nella velocità di scrittura e lettura; i bambini cinesi invece conquistano il mondo un ideogramma alla volta, quindi i loro progressi si misurano su quante parole/concetti hanno conquistato». Oggi succede meno spesso che i bimbi arrivati in Italia da piccoli comincino le elementari senza sapere l’italiano, perché vengono iscritti subito alla scuola materna.

Alla scuola elementare di via Giusti i bimbi cinesi sono il 25 per cento, uno su quattro, quasi tutti nati in Italia. Per il capodanno cinese, un’associazione informale di genitori organizza un’anticipazione della parata dei dragoni di cartapesta. Per animare il tradizionale dragone ci vogliono undici persone molto allenate, che però nei giorni feriali lavorano, così quest’anno arrivano due figure colorate alternative, i leoni, una danza di giallo fluorescente in una mattina piovosa. Alla festa partecipano tutti gli allievi del complesso scolastico, dalla materna alle medie, e l’anno scorso i bambini cinesi hanno fatto una sorpresa ai compagni italiani preparando in segreto una canzone cinese. Quest’anno, agitando le bandierine dell’anno del Gallo che hanno preparato in classe, provano a cantarne una tutti insieme. Radunati intorno al suonatore di tamburo, applaudono e corrono a toccare i leoni di cartapesta come se fossero animali veri. Alcuni scolari italiani e cinesi vengono coinvolti nell’interpretazione delle maschere più piccole, applauditi come rockstar dai loro compagni. «Per i bambini cinesi è un momento di grande orgoglio, e per i bambini italiani una scoperta», dice Cristina Carpinelli, che ha due bimbi alla scuola di via Giusti e fa parte dell’associazione di genitori che ha avuto quest’idea.

Francesco Wu è arrivato in Italia che aveva otto anni, e oggi è il fondatore e presidente onorario di UNIIC, nonché vicepresidente di Associna Lombardia e membro del direttivo dell’EPAM, l’Associazione Provinciale Milanese dei Pubblici Esercizi, e titolare di un ristorante italiano a Legnano. Laureato in ingegneria, ha 36 anni ed è arrivato a Milano da Wenzhou, nello Zhejiang. «Me la ricordo sì, la Cina, le strade polverose», dice, «mio padre aveva una piccola impresa edile a conduzione familiare, e mia madre faceva la casalinga, ma in fondo veniamo tutti dalla cultura contadina». Dell’impatto scioccante con il nuovo paese, Wu ricorda «la grande città, la difficoltà di imparare a pronunciare la erre, e di mangiare il formaggio, che per noi era una cosa molto strana». È convinto che l’esperienza delle due culture non solo forgi il carattere, ma che chi è arrivato da bambino finisca per essere più tenace perfino rispetto alle seconde generazioni che sono nate in Italia. «In provincia poi è più facile essere gli unici cinesi», dice, «immagina un bambino nelle Marche, con la famiglia che ha il classico ristorante, finisce per assimilarsi e rischia di perdere la sua parte cinese. Alcuni di questi ragazzini hanno il loro primo contatto con altri ragazzi cinesi attraverso Facebook. Io invece mi sento totalmente italiano, ma anche totalmente cinese. Noi non solo siamo il ponte, ma anche entrambi i luoghi alle estremità del ponte».

Alcune cose della sua parte cinese, Wu le sta ancora imparando. «Alle superiori ero l’unico cinese, e al Politecnico eravamo solo in due. Frequentavo quasi solo italiani, andavo in vacanza con i miei amici, non ero cresciuto a Chinatown; questo da una parte mi rendeva aperto, ma anche lontano dalle mie origini. Adesso da quando ho fondato UNIIC frequento gli amici imprenditori di seconda generazione e la sera bevo con loro come fanno i cinesi, e canto il karaoke, faccio i giochi con le mani e con i dadi, e mi piace. L’altro giorno sono passato da via Messina e ho visto una bottega di fruttivendolo cinese, sai, quei posti un po’ disordinati, con le foglie per terra. Una volta avrei detto, no, qua siamo a Milano, non si tiene il negozio così! E invece ho pensato, è un pezzo di Cina che posso rivivere, è una cosa bella. Queste cose le ho capite solo un anno fa, molto tardi». Quando gli chiedo se ha mai percepito qualche forma di discriminazione, all’inizio dice: «credo che un po’ le abbiamo vissute tutti, a volte in forma innocente, fra bambini, a volte più cattiva; in quarta o quinta elementare un compagno mi ha detto “muso giallo”, perché lo aveva sentito dire dei vietnamiti nei film americani, e io gli ho dato una gomitata», racconta ridendo, «o al Politecnico, quando guardavamo le partite di calcio sul maxischermo, e nel 2002 per Italia-Corea io tifavo Italia e i compagni mi prendevano in giro, cose bonarie».

«Però adesso che mi ci fai pensare, l’episodio più importante mi è capitato da adulto. Prima di fondare UNIIC e di mettermi in proprio, io ho lavorato in due aziende italiane, una in provincia di Bergamo, con colleghi fantastici con cui uscivo anche nel tempo libero, e poi una in provincia di Milano, che invece stava attraversando un momento di crisi. Mi hanno preso perché pensavano di salvare l’azienda sbarcando sul mercato cinese, e invece i colleghi, e perfino il mio capo, non mi hanno mai fatto sentire accettato, erano terrorizzati che la Cina gli avrebbe portato via il lavoro. Io mi sono licenziato, e due o tre anni dopo l’azienda ha chiuso. Ma a livello personale, quello shock è stata proprio la cosa che mi ha aperto gli occhi. Ho pensato, guarda cosa ci succede nei momenti di crisi, come possiamo perdere le nostre migliori qualità. E questo mi ha spinto a mettermi in gioco, e a fondare UNIIC per dare il mio contributo».

In mancanza di accordi bilaterali fra la Cina e gli altri paesi, per un giovane cinese chiedere la cittadinanza italiana significa rinunciare a quella cinese. Da quel momento, per andare in Cina avrà sempre bisogno del visto, come se fosse straniero. «Quando arrivano alla maggiore età», dice Lidia Casti dell’associazione di promozione sociale Shoulashou, «vivono spesso un momento critico, perché richiedere la cittadinanza significa comunque recidere il legame con la nazionalità dei genitori. Eppure quasi tutti, molto consapevolmente, scelgono quella italiana, e non si guardano più indietro. Queste sono generazioni che aprono varchi, non solo per loro, ma anche per gli italiani». Casti sta lavorando a un festival di cultura cinese che si svolgerà a maggio alla Fabbrica del Vapore, un grande spazio industriale recuperato proprio sul bordo nord di Chinatown. È contenta che finalmente le seconde generazioni abbiano trovato una voce propria. «Da una parte UNIIC ha molto modernizzato il dialogo. Allo stesso tempo, la loro idea originale di farsi portavoce non ha funzionato molto bene, perché i cinesi sul territorio hanno le aspirazioni più disparate e molte rivalità interne». Francesco Wu non è d’accordo: «Prima non c’era niente, e adesso si legge di UNIIC sulla stampa, e gli italo-cinesi in Toscana ci hanno chiesto aiuto per fondare la loro associazione. Non pretendiamo di raccontare tutta la complessità, ma abbiamo creato una specie di modello-Milano. All’inizio siamo andati allo scontro con il Comune quando abbiamo vinto il ricorso contro la trasformazione di via Sarpi in Zona a Traffico Limitato, ma poi ci siamo conquistati un posto serio al tavolo dei negoziati. Anche con l’associazione dei residenti ViviSarpi adesso c’è un rapporto più cordiale, meno ideologico».

Per l’elezione del sindaco di Milano nel 2016, UNIIC ha invitato i propri iscritti, sia che intendessero votare per il centrosinistra con Beppe Sala, o per il centrodestra con Stefano Parisi, a esprimere le loro preferenze «per i partiti e i candidati che hanno espresso in questi anni vicinanza e amicizia con la nostra comunità e con la stessa hanno collaborato fattivamente». Una delle richieste di UNIIC è che possano votare alle elezioni comunali anche i cittadini stranieri residenti da molto, e non solo coloro che hanno ottenuto la cittadinanza italiana. «Anche se certo va prima approvata la nuova legge sulla cittadinanza», dice Wu. «Ma per noi, aver creato una spinta alla partecipazione politica è comunque un passaggio epocale. Che i cinesi abbiano votato alle primarie del PD è stato un fatto storico; sul momento le polemiche mi hanno infastidito, ma dopo mi sono sentito fiero di quello che abbiamo ottenuto».

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