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  • Domenica 12 marzo 2017

Patagonia, North Face e il marketing “etico”

Il Guardian racconta che il successo mainstream delle due aziende di abbigliamento è dovuto al fatto che quasi non vogliono venderci i loro prodotti (o così ci sembra)

Normcore è il nome che si usa da qualche tempo per indicare le persone che si vestono con abiti casual e tendenzialmente informali: normali, appunto. Una delle declinazioni della moda normcore è quella che prevede l’utilizzo di giacche e maglie sportive, pensate per essere usate nelle escursioni in montagna, e indossate invece quando si va al lavoro o si porta a spasso il cane. Le due aziende che hanno beneficiato di più di questo fenomeno sono North Face e Patagonia, che esistono rispettivamente dal 1966 e dal 1973, e che negli ultimi anni hanno adottato una simile strategia di mercato molto redditizia e allo stesso tempo dalle connotazioni “etiche”, come ha raccontato il Guardian in un recente articolo.

All’inaugurazione del primo negozio della North Face, nel 1966 a San Francisco, suonarono i Grateful Dead e c’era anche Joan Baez. L’aveva aperto Doug Tompkins, un appassionato di sport all’aria aperta che si era messo in testa di produrre la propria linea di abbigliamento specializzato. Un suo vecchio amico e compagno di avventure era Yvon Chouinard, che già da qualche anno lavorava a dei capi di abbigliamento che disegnava personalmente, e che cominciò a chiamare con il nome Patagonia dal 1973. Qualche decennio dopo, le due aziende sono diventate le principali nel mercato dell’abbigliamento da outdoor negli Stati Uniti, che vale da solo circa 4 miliardi di dollari all’anno, e popolari e apprezzate un po’ in tutto il mondo. North Face è la più grande delle due: ha 200 negozi sparsi nel mondo e l’anno scorso ha guadagnato 2,3 miliardi di dollari. Patagonia si è fermata a 800 milioni, e ha 29 negozi negli Stati Uniti, 23 in Giappone e qualcun altro in località strategiche, come la località sciistica di Chamonix, in Francia, sul Monte Bianco.

Sia North Face sia Patagonia vendono prodotti studiati per svolgere la loro funzione – spesso di tenere caldi o asciutti chi li indossa – in condizioni estreme, e questo fa sì che dietro praticamente ogni articolo venduto ci siano anni di perfezionamenti e studi per renderli più leggeri, pratici, comodi, belli. Tutto questo ha un costo, spesso molto elevato: entrambe le aziende vendono giacche da alpinismo da 800 euro o più, oppure pile o felpe “termiche” da 100 euro. Tutte e due impiegano molte risorse nella sponsorizzazione di atleti poco conosciuti dal pubblico ma ai massimi livelli nei loro sport, che siano alpinisti o velisti o corridori di ultra-maratone. Se guardate un documentario su una spedizione al Polo Nord, o di una particolare impresa alpinistica – o anche solo la serie di BBC “Planet Earth”, ambientata in luoghi estremi della Terra – è probabile che notiate spesso vestiti di North Face o Patagonia, insieme a quelli di altre aziende come Salewa o Columbia.

Ma i responsabili del marketing di queste aziende hanno ben presente che la maggior parte dei loro ricavi non arriva da chi ha bisogno di una giacca per attraversare l’Antartide con gli sci di fondo, e nemmeno da chi pratica amatorialmente sport di montagna a un certo livello, e che ha bisogno di abbigliamento tecnico per scalare montagne di quattromila metri o ripararsi dal vento su pareti rocciose. Il principale bacino di clienti è rappresentato da chi indosserà un giubbotto imbottito per due mesi all’anno per stare al caldo nel tragitto che separa casa sua dal suo ufficio, oppure dai semplici appassionati di escursioni che nel weekend la useranno per tranquille passeggiate in montagna. Banalmente, significa riuscire a vendere abbigliamento professionale a persone che non ne hanno un reale bisogno.

È una cosa piuttosto comune – pensate alla diffusione delle cuffie ad alta qualità o delle scarpe da corsa semi-professionali indossate da chiunque – ma Patagonia e North Face lo uniscono a un’altra, efficacissima strategia di marketing, che fa leva sulla volontà di moltissime persone di sentirsi eticamente a posto con se stesse quando comprano le cose.

L’immagine delle due aziende è stata poi aiutata anche dal profilo pubblico dei due fondatori, che oltre ad essere appassionati di escursioni e sport all’aperto, proprio come la maggior parte dei loro clienti, sono stati attivi ambientalisti. Sia Tompkins – che è morto nel dicembre del 2015 in un incidente in kayak – sia Chouinard hanno da sempre improntato le loro attività commerciali al rispetto per l’ambiente. Ma come ha spiegato il Guardian, da una sincera inclinazione personale è nata una strategia di marketing efficacissima, che sfrutta la passione per la natura diffusa tra i clienti delle due società. Vendere vestiti che si usano nella natura a gente che ama stare nella natura, il tutto rispettando la natura stessa, è in sostanza la formula alla base del successo sia di Patagonia sia di North Face.

Entrambe le compagnie hanno avuto un incredibile successo perché si sono create un’immagine che non è solo legata all’etica e all’ambientalismo, ma è sulla natura, l’avventura, l’esplorazione: idee più grandi del semplice vendervi una giacca, prendere i vostri soldi e cercare di non danneggiare troppo il pianeta nel frattempo. In altre parole, entrambe le compagnie vendono cose in parte facendo passare l’idea che non stanno provandoci troppo, a vendervi le cose: questo li aiuta a vendere più cose.

Il percorso di Tompkins e Chouinard verso l’ambientalismo fu diverso: il primo vendette North Face un paio di anni dopo averla fondata, creò un’altra società di abbigliamento sportivo – Esprit – e poi dagli anni Novanta, ormai molto ricco, si dedicò principalmente a provare a salvare il pianeta. Chouinard invece cercò di mantenere Patagonia un’azienda quasi famigliare, minimizzandone l’impatto ambientale. A partire dagli anni Novanta, per esempio, cominciò a impiegare solo cotone biologico, cioè coltivato senza fertilizzanti e solo con piante non modificate geneticamente, e dal 2013 (e dall’anno successivo anche North Face) sono utilizzate solo piume ottenute senza far soffrire le oche. Sempre Patagonia ha aumentato i materiali riciclati utilizzati per i propri prodotti, e ha interrotto i rapporti commerciali con fornitori che non si sono adeguati alla filosofia dell’azienda, anche dal punto di vista del trattamento dei lavoratori.

Qualcuno poi ha paragonato la stessa Patagonia a una specie di setta, perché in generale chi ci lavora ha idee comuni sul rispetto dell’ambiente e in alcuni casi, scrive il Guardian, finisce per sposare altri dipendenti dell’azienda. Neil Blumenthal, co-fondatore di una startup di abbigliamento di nome Warby Parker, ha raccontato che quando è andato a visitare lo stabilimento ha visto una parte del lavoro dietro lo sviluppo dei prodotti – giacche testate con piogge di diverse parti del mondo, con differenti composizioni chimiche – ma ha spiegato che la cosa che lo ha colpito di più è stata che quando ha incontrato i dirigenti con cui doveva parlare ha fatto con loro una passeggiata sulla spiaggia, invece che una riunione in una sala conferenze.

Un’altra delle strategie di Patagonia è quella di vendere i propri prodotti il più possibile in posti con un’identità e un collegamento con il posto in cui si trovano, invece che nei centri commerciali. Un suo rappresentante che ha parlato con il Guardian ha spiegato di non avere paura a dire pubblicamente che non vorrebbero avere come clienti le persone che pagano 100mila dollari per scalare l’Everest solo per potersene vantare. Ma questa filosofia deve convivere con un’azienda da quasi un miliardo di dollari l’anno di ricavi, e non sempre lo fa in modo armonico. Patagonia è consapevole di questa contraddizione, e lo ha dimostrato con una pubblicità per il Black Friday – il venerdì dopo il giorno del Ringraziamento, tradizionale giorno di shopping negli Stati Uniti – nel 2011. La pubblicità consisteva nella foto di una giacca vicino alla scritta “Non comprate questa giacca”, seguita da una spiegazione dei motivi ambientali per cui il consumismo è dannoso. Quell’anno, le vendite della società furono del 30 per cento superiori rispetto al Black Friday del 2010.

La gestione dell’immagine pubblica di North Face è invece più complicata di quella di Patagonia. I suoi capi d’abbigliamento, grazie alla diffusione dei prodotti del tipo “athleisure” tra i giovani, ora hanno due destinazioni piuttosto distinte tra chi li usa in città e chi li usa per sport all’aria aperta, ancora di più di Patagonia. E il rischio è quello che la società diventi sempre più associata con la prima clientela che con la seconda, con la conseguenza che gli sportivi si rivolgano ad altri marchi per paura di una qualità inferiore (e anche di immagine, volendo). Questo succede già, tra alcuni sportivi più giovani ed esigenti che preferiscono comprare prodotti di marchi più piccoli e di cui si fidano di più, anche se ancora più costosi. Se North Face insisterà troppo sull’aspetto tecnico dei suoi prodotti, perderà la clientela più giovane e alla moda; se insisterà troppo poco, perderà chi vuole usare le sue giacche in alta quota. Questo tipo di problemi, e il fatto che sia una società con un fatturato molto maggiore, fa sì che North Face non possa permettersi alcune scelte etiche troppo dogmatiche o pubblicità che dicono di non comprare i suoi prodotti. Quando lo scorso ottobre la società ha dichiarato un calo delle vendite nell’ultimo quadrimestre dell’1 per cento, il presidente di North Face, in carica dal 2011, si è dimesso.