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  • Lunedì 27 febbraio 2017

A che punto è l’Italia sul testamento biologico

Il PD e il M5S sono d'accordo su una proposta di legge il cui arrivo in Parlamento però è appena stato rinviato per la terza volta, e che comunque non avrebbe dato a Fabiano Antoniani il suicidio assistito

Una manifestazione di medici organizzata dalla CGIL contro la proposta di legge del 2011 sul testamento biologico. (ANSA/CLAUDIO PERI)
Una manifestazione di medici organizzata dalla CGIL contro la proposta di legge del 2011 sul testamento biologico. (ANSA/CLAUDIO PERI)

La storia di Fabiano Antoniani – l’uomo di Milano cieco e tetraplegico che è morto il 27 febbraio grazie a una procedura di suicidio assistito in Svizzera – ha riaperto la discussione sul testamento biologico, l’eutanasia e in generale su quanto alle persone sia concesso il diritto all’autodeterminazione e quindi, in ultima istanza, a scegliere se rifiutare le cure o decidere di mettere fine alla propria vita. È un dibattito che in Italia si apre e si chiude ciclicamente, soprattutto in corrispondenza di storie individuali – come quella di Antoniani, e prima di lui di Piergiorgio Welby ed Eluana Englaro – o in occasione di campagne organizzate da movimenti e associazioni, ma che non ha mai portato a cambiamenti significativi della legislazione: tanto che Antoniani è dovuto andare in Svizzera per accedere al suicidio assistito, che in Italia non è legale. Ed è una discussione di nuovo attuale anche perché il Parlamento italiano proprio in queste settimane sta lavorando – con grande fatica – a una nuova legge sul tema.

L’ultimo tentativo di legiferare sul cosiddetto “fine vita” in Italia fu intrapreso nel 2010, dopo la morte di Eluana Englaro, quando il centrodestra aveva la maggioranza in Parlamento e sosteneva un governo guidato da Silvio Berlusconi: un disegno di legge approvato alla Camera prevedeva la possibilità di esprimere un testamento biologico – più precisamente una DAT, Dichiarazione Anticipata di Trattamento – ma con tanti e tali vincoli che secondo molti esperti limitava moltissimo la libertà di scelta del paziente. Il testo stabiliva innanzitutto la tutela di alcuni “principi”: la vita umana, la dignità personale, il divieto dell’eutanasia e dell’accanimento terapeutico, il consenso informato come presupposto di ogni trattamento sanitario. Concretamente impediva ai pazienti di usufruire sia del suicidio assistito che dell’interruzione dell’alimentazione e l’idratazione, permettendo loro di stabilire a quali trattamenti sanitari rinunciare nel caso di una futura perdita della propria capacità di intendere e di volere. Queste dichiarazioni però non erano vincolanti per il medico, che avrebbe dovuto quindi prendere una decisione autonoma. La proposta di legge fu approvata dalla Camera ma mai dal Senato.

Il vuoto legislativo sul testamento biologico in Italia ha a che fare anche con la mancata ratifica della cosiddetta Convenzione di Oviedo, il primo trattato internazionale sulla bioetica, redatto e sottoscritto nel 1997 su impulso del Consiglio d’Europa. La Convenzione prevede che «i desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento medico da parte di un paziente che, al momento dell’intervento, non è in grado di esprimere la sua volontà saranno tenuti in considerazione»: è entrata in vigore nel 1999 e l’Italia l’ha recepita nel 2001, ma il Parlamento non ne ha mai votato la ratifica né ha adeguato il suo ordinamento ai principi del trattato, quindi tecnicamente non ne fa ancora parte.

Oggi ci sono sei proposte di legge sul “fine vita” depositate in Parlamento – altre due erano state presentate e poi successivamente ritirate – e due di queste sono in discussione nella commissione Affari costituzionali della Camera: la prima è stata presentata da cinque deputati di Possibile, Beatrice Brignone, Giuseppe Civati, Andrea Maestri, Luca Pastorino e Antonio Matarrelli; la seconda da tutti i deputati del Movimento 5 Stelle. La relatrice di entrambe le proposte – cioè la persona che illustra i contenuti del disegno di legge e ne segue l’iter fino all’approvazione – è la deputata Donata Lenzi del Partito Democratico. Su questo tema sulla carta esiste quindi una larga maggioranza in Parlamento, tanto che le proposte di Possibile e del Movimento 5 Stelle dopo un anno di lavoro sono state unificate.

Il disegno di legge, intitolato “Norme in materia di consenso informato e di dichiarazioni di volontà anticipate nei trattamenti sanitari”, prevede in sintesi che “nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge”, e che “ogni persona maggiorenne e capace di intendere e di volere ha il diritto di rifiutare, in tutto o in parte, qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario indicato dal medico per la sua patologia o singoli atti del trattamento stesso”. Il consenso può comportare “l’interruzione del trattamento, ivi incluse la nutrizione e l’idratazione artificiali”, ma “non possono comportare l’abbandono terapeutico”. Il medico “è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo e, in conseguenza di ciò, è esente da responsabilità civile o penale”. Il testo stabilisce anche che il paziente “non può esigere trattamenti sanitari contrari a norme di legge e alla deontologia professionale”.

All’articolo 3 la legge prevede che ogni persona maggiorenne capace di intendere e di volere possa quindi esprimere le proprie volontà compilando – “in previsione di una eventuale futura incapacità di autodeterminarsi” – una Disposizione Anticipata di Trattamento (DAT). Il paziente può quindi esprimere consenso o rifiuto in merito a “scelte diagnostiche o terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari, ivi comprese le pratiche di nutrizione e idratazione artificiali” e indicare una persona di sua fiducia che eventualmente ne faccia le veci. Le DAT possono essere disattese dal medico, in accordo con la persona fiduciaria, “qualora sussistano terapie non prevedibili all’atto della sottoscrizione, capaci di assicurare possibilità di miglioramento delle condizioni di vita”; devono essere autenticate da un notaio o da un pubblico ufficiale o da un medico; ovviamente sono rinnovabili, modificabili e revocabili in ogni momento.

Questo vuol dire che anche se oggi fosse in vigore questo disegno di legge, Fabiano Antoniani non avrebbe comunque avuto diritto a usufruire del suicidio assistito: al massimo avrebbe potuto decidere di morire lentamente interrompendo la nutrizione e l’idratazione artificiale. Anche per questo la proposta è considerata da chi si occupa di testamento biologico un primo passo, ancora incompleto: secondo l’associazione Luca Coscioni la legge è «una buona base di partenza» ma contiene alcune formule «ambigue», considera la deontologia professionale dei medici una «fonte del diritto per determinare a quali cure il malato non può accedere» e non parla della cosiddetta “sedazione continua profonda”, cioè quelle cure palliative che permettono al paziente che lo sceglie di morire senza soffrire. Dall’altra parte, la legge è molto criticata dal centrodestra e dai parlamentari di più forte ispirazione religiosa, secondo cui bisogna dare al medico la possibilità di non applicare la volontà del paziente e bisogna considerare l’idratazione e la nutrizione artificiale come trattamenti vitali e non come una terapia.

Il disegno di legge sarebbe pronto per arrivare in aula ma la data della discussione ha subìto pochi giorni fa il terzo rinvio: un po’ per le minacce di ostruzionismo dell’opposizione – la Lega ha minacciato di «fare le barricate» – e un po’, secondo alcuni, per una mancanza di volontà politica nella maggioranza. «Dopo oltre un anno di dibattito e decine di audizioni, siamo costretti ad assistere a un terzo rinvio a una nuova data che, a questo punto, dobbiamo considerare essere scritta sulla sabbia», ha detto Marco Cappato dell’associazione Luca Coscioni, aggiungendo che manca «la volontà politica di dare un impulso al percorso di approvazione della legge, in particolare da parte del Partito Democratico». Visto che una volta in aula ci sarebbe comunque una complicata discussione sia alla Camera che al Senato, con in mezzo l’ostruzionismo dell’opposizione, e che è impossibile che il governo ponga la fiducia su una questione così delicata, e manca poco meno di un anno alla fine di una legislatura già molto instabile, molti temono che questo rinvio implichi il definitivo fallimento della proposta a cui la commissione Affari sociali ha lavorato per più di un anno.