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  • Domenica 26 febbraio 2017

I giornali stanno sbagliando strategia con Trump

Lo sostiene il noto giornalista Chris Cillizza sul Washington Post, spiegando che bisognerebbe parlare meno di "Trump e i giornali" e più di "Trump e basta"

di Chris Cillizza – The Washington Post

(Scott Olson/Getty Images)
(Scott Olson/Getty Images)

La settimana scorsa il presidente americano Donald Trump, in difficoltà per il caos che ha agitato la sua amministrazione dopo solo un mese dall’inizio del suo mandato, si è aggrappato alla sua solita scialuppa di salvataggio: i media. Oppure, per metterla in modo più schietto, Trump – messo alle strette dalle accuse sui contatti tra alcuni suoi collaboratori e funzionari dei servizi segreti russi – ha indirizzato tutta la sua potenza retorica contro la stampa, accusando i giornalisti che si occupano di lui di essere sostanzialmente disonesti, corrotti e «nemici del popolo americano». La strategia di Trump è semplice: spostare il dibattito da un argomento che per lui sarebbe perdente (perché ci sono così tante domande senza risposta sui legami di Trump con la Russia?) a uno vincente (i mezzi d’informazione sono pessimi e ce l’hanno con me). La stampa, però, non dovrebbe cascarci.

Non esiste settore più interessato a se stesso del giornalismo. Forse è per tutti i laureati in studi linguistici che popolano la nostra professione; o forse per il fatto che noi – d’accordo, io – da giovani eravamo dei nerd e che ci piace ricevere attenzioni. La nostra tendenza a concentrarci troppo su noi stessi è leggendaria. Cosa stiamo facendo? Cosa dovremmo fare? Facciamo le cose nel modo giusto? Cosa dovremmo cambiare? E cosa no? Sono tutte domande sensate, che è giusto porsi. Al momento, però, non sono le domande più urgenti che gli Stati Uniti devono affrontare. Quali sono, allora, queste domande? Tanto per cominciare, queste:

1. Chi tra i membri del comitato elettorale di Trump ha parlato – consapevolmente o meno – con funzionari dei servizi segreti russi? Qual era la natura di quelle conversazioni? Tra di loro c’è qualcuno che fa parte dell’amministrazione Trump?

2. Perché Trump ha aspettato due settimane per rimuovere Michael Flynn dal suo ruolo di consigliere per la sicurezza nazionale nonostante sapesse che aveva mentito riguardo ai suoi colloqui con l’ambasciatore russo negli Stati Uniti? Perché il vicepresidente Pence non è stato avvertito prima che intervenisse a un talk show domenicale per difendere Flynn?

3. Quando saranno conclusi gli accertamenti sulle dichiarazioni dei redditi di Trump? E, nel caso in cui non sia possibile indicare una data specifica, Trump può promettere di diffondere pubblicamente le sue dichiarazioni dei redditi una volta conclusi gli accertamenti? Se non può, per quale motivo?

4. Come nello specifico Trump e i membri del congresso Repubblicani intendono sostituire l’Affordable Care Act, la riforma sanitaria introdotta dall’amministrazione Obama, più nota come Obamacare? Come verrà finanziato il nuovo programma sanitario?

5. I Repubblicani al Congresso approveranno lo stanziamento dei miliardi di dollari che secondo le stime saranno necessari per realizzare il muro che Trump vuole costruire al confine con il Messico, sulla base della promessa che il Messico restituirà poi quei soldi agli Stati Uniti?

Credo che l’idea sia chiara. Da quando si è insediato come presidente Trump ha detto e fatto moltissime cose. Ne ha spiegate alcune, ma molte altre no. Di fronte a tanta incertezza, il compito della stampa non è concentrarsi su se stessa, ma piuttosto tornare ai fondamentali della professione: fare domande, fornire il contesto e informare i cittadini. Il miglior modo per combattere le accuse che arrivano da Trump e da molti dei suoi sostenitori, secondo cui i mezzi d’informazione sono «il nemico», è semplicemente abbassare la testa e fare il nostro lavoro. Non siamo noi la notizia. La notizia è la notizia. Non si tratta di “Donald Trump contro i media”, e non dovrebbe mai esserlo. Non si dovrebbe mai parlare di “Trump contro qualcosa”, ma piuttosto entrare nel merito delle sue proposte e dei loro effetti sulla vita degli americani.

Un altro appunto: nonostante le sue accuse sugli errori fatti dalla stampa siano spesso prive di fondamento, non sempre Trump ha torto. Noi che lavoriamo nel settore dell’informazione facciamo degli errori; e meno ne parliamo con trasparenza, maggiore è il credito che diamo alle accuse secondo cui noi ci riteniamo esenti da ogni critica. Non cercate due fonti per le vostre storie. Cercatene tre. Oppure, come ha fatto il Washington Post per lo scoop sui colloqui tra Flynn e Sergey Kislyak, l’ambasciatore russo negli Stati Uniti, in merito alle sanzioni economiche americane alla Russia, cercatene nove (!). Quando poi, come inevitabile anche adottando le pratiche migliori, incapperete in un errore onesto, spiegate ai lettori come è successo e perché.

L’elezione di Trump – e la sua posizione aggressiva contro i mezzi d’informazione – rappresenta una sfida fondamentale per il giornalismo nel 21esimo secolo. Non è una cosa negativa. È il momento di tornare ai principi basilari del giornalismo: scoprire cosa è successo e perché. Niente di più, niente di meno.

© 2017 – The Washington Post