Si gioca come si vive

Una giornata con Valerio Mastandrea a Milano a parlare di cinema, di Roma, e vedere il suo spettacolo vecchio e attuale

di Gabriele Gargantini – @GGargantini

(Matteo Nardone/Pacific Press via ZUMA Wire)
(Matteo Nardone/Pacific Press via ZUMA Wire)

A sud del centro di Milano, a tre fermate di metro gialla dal Duomo, ci sono i Bagni Misteriosi, la cosa nuova dell’estate scorsa a Milano, dove se avevi intorno ai trent’anni toccava andare almeno una volta. Lì accanto c’è il Teatro Franco Parenti, dove a fine gennaio è stato in scena Migliore, un monologo che fa prima ridere e poi pensare, mentre ancora ridi: è stato scritto da Mattia Torre e lo recita Valerio Mastandrea. È del 2005, ma il Parenti sta dedicando una «personale» a Torre: a marzo e maggio ci saranno altri due suoi spettacoli.

A fine gennaio ai Bagni Misteriosi c’è una pista di pattinaggio e non tantissimi circa-trentenni che ci pattinano sopra. Nelle sere dei monologhi di Mastandrea il Parenti è invece sempre pieno. I circa-trentenni sono in stragrande minoranza. Il rapporto donne/uomini non è di due a uno, ma ci si avvicina. Ci sono tante coppie, molti maglioni e poche cravatte e, qualche minuto prima dell’inizio del monologo, un discreto trambusto: gente che fuma, fuori; dentro, gente che vaga, chiacchiera e ordina di fretta una cosa al bar. Poi, al suono del campanello, gli inviti per far sì che chi aveva il biglietto lo usasse per andare al suo posto si sono fatti più insistenti e tutti ci sono andati, ai loro posti.

Dentro, il Parenti ha il pavimento di legno, le pareti con mattoni a vista, il sipario rosso – da teatro – e le poltrone tutte occupate. Mastandrea – che il giorno prima aveva dovuto annullare lo spettacolo perché aveva la febbre – inizia qualche minuto dopo l’ora prevista e intanto la gente chiacchiera. Tre signore – senza pelliccia, di circa 45 anni – parlano di teatri e spettacoli: di quanto era bello quello di qualche anno fa «della Pina Bausch» (quella del teatrodanza), di Paolo Rossi, di che belli sono i muri scrostati del Parenti e i suoi corrimano in ferro, degli abbonamenti che negli anni precedenti hanno fatto ad altri teatri, prima di scegliere il Parenti. Nella fila davanti due signori, di sessant’anni almeno, entrambi con tutti i capelli bianchissimi, parlano di vino, di «una gradevole Falanghina». Dietro, le signore si mettono a parlare di cellulari e intanto una di loro guarda il suo iPhone: lo tiene con una mano, lo usa con l’indice dell’altra. I due signori stanno intanto parlando «del Mastandrea» e di Migliore: «Ripropone la vita attuale. Le iene vanno avanti e i buoni la prendono in quel posto»; dice uno, all’altro. Dice proprio in-quel-posto.

Poi una voce registrata annuncia che lo spettacolo sta per iniziare, e lo spettacolo inizia.

Migliore è un monologo da palco vuoto e Mastandrea ci sale con un completo scuro con giacca abbottonata. Le prime parole dello spettacolo sono «mancavo solo io». Mastandrea sta dritto, con la postura di un uomo poco espansivo, con le braccia distese e i pugni semichiusi. Interpreta Alfredo Beaumont, un uomo che lavora per una società che offre carte di credito a ricchi viziatissimi e «ti chiede di essere migliore», di fare al meglio il tuo lavoro e soddisfare come meglio puoi i tuoi clienti. I clienti sono ricchi e viziati proprietari di carte di credito che chiamano Beaumont con strambe ed esigentissime richieste che lui – che è una specie di loro assistente personale – deve esaudire il più velocemente possibile. Uno lo chiama e gli dice «Sono in Olanda. Non mi piace», un altro vuole acqua minerale di un certo tipo, in Tibet; un altro ancora cerca un ristorante messicano a Lampedusa. Quando non lavora, Beaumont è spesso impegnato in varie cose di volontariato, per esempio l’adozione di un pero in Piemonte, da salvare da chi vorrebbe tagliarlo. È succube, timido e subisce le cose della vita. Una specie di Fantozzi di un’epoca successiva, se Fantozzi facesse volontariato. Beaumont è come qualcuno davvero è, ma come pochissimi ammetterebbero di essere. Poi c’è un incidente per cui commette un reato, di cui si sente colpevole. Viene però assolto e improvvisamente cambia. A metà spettacolo – che dura più di un’ora ma meno di due – urla un «basta» e inizia a usare parolacce, dire quello che pensa, e comportarsi in modo diverso.

Il personaggio interpretato da Mastandrea diventa sfacciato, risoluto e prepotente. Cattivo, anche. Prima si ride di lui, poi – nel caso – con lui: di quello che dice e fa, anche delle cose brutte. La giacca si sbottona e alla fine Mastandrea se la toglie pure, cambiando anche postura, oltre che modi e tono della voce. Grazie a quel cambiamento – forse in peggio – le cose iniziano ad andare meglio a Beaumont e lo spettacolo gira tutto su questo concetto. Torre, l’autore, è stato sceneggiatore della serie Boris e, per il film e le stagioni dalla seconda in poi, co-regista. Ha scritto con Corrado Guzzanti la serie tv Dov’è Mario? e ha co-diretto Ogni maledetto Natale. Il sottotitolo di Migliore – che non ha né un quando né un dove – è «una storia dei nostri tempi».

franco-parenti

Due giorni dopo, un paio d’ore prima di tornare sul palco del Parenti per fare ancora Migliore, Mastandrea racconta, nel suo camerino, di averlo fatto «almeno cento volte, forse pure di più» e che riprenderlo sei anni dopo l’ultima volta che l’aveva fatto è stato «allucinante». «Come i cantanti che cantano quelle vecchie canzoni di trent’anni prima e giustamente le riarrangiano perché sono cambiate le cose: uno perde in istinto e acquista in cura e tecnica. Oppure il contrario». Mastandrea è soddisfatto di come il pubblico del Parenti ha reagito a Migliore: «È una storia datata ma non può essere datato il contenuto più profondo, di quanto sia italiano innamorarsi di un fijo de ‘na mignotta, cioè di uno che comunque te s’incula». I camerini del Parenti sono come il Parenti: con tanto legno e un po’ di ferro qua e là. Quello di Mastandrea ha due sedie e una poltrona, un bagno con doccia, un tavolo su cui ci sono soprattutto bottiglie d’acqua, fazzoletti, medicine e frutta. Lui è seduto su una sedia.

Parlando di Beaumont dice “furbetto del quartierino”, ma poi ci ripensa, «perché furbetto del quartierino è un termine che mi genera tenerezza, e non vorrei». E dice: «il grosso pregio di ‘sto testo è tenerti sempre la fascinazione nei confronti del malvagio, sempre lì. Te la tiene alta e quindi non riesci a non parteggiare per lui fino alla fine. La scommessa di una grande scrittura è proprio questa: riuscire a essere empatici col personaggio nella fase più comoda e confortevole per il pubblico, ma anche in quella più scomoda, e Torre ce le ha queste cose».

Mastandrea è entrato al Parenti dall’ingresso principale. Va al bar, prende una focaccia e poi va a leggere – apparentemente senza troppo interesse – la bacheca su cui ci sono le recensioni di Migliore. Legge di aver detto una cosa su lui che spera nei giovani e dice di non credere proprio di averla detta. Senza rabbia, giusto con un po’ di annoiato fastidio. Non sembra essere abituato a entrare dall’ingresso principale e fatica un po’ a trovare una porta aperta per entrare nel teatro, salire sul palco e da lì arrivare al camerino. Dietro le quinte lo chiamano «Vale», senza accento sulla e: siamo a Milano. Saluta tutti, toglie la giacca, tira su le maniche del maglione e si mette a parlare. Tossendo ogni tanto, che è ancora malato.

Le interviste non gli piacciono. «Ma che cazzo deve sape’ la gente? “Fammi un quadro su di te”: ma l’ho fatto tre mesi fa». E dice: «Non c’è bisogno che ogni volta me fai un coccodrillo vivente». «Non dico di fare la fine di Malick» – il regista, che parla pochissimo e si fa vedere ancora meno – «però di parlare ogni tanto, di modo che uno almeno è interessato». Poi, in realtà, parla molto, soprattutto di Roma. Non di politica, e non di politica di Roma. Di Roma: «È un momento pazzesco questo. È come se avessero gettato tutti la spugna, se vede tutto». Ogni tanto parte e dice tante cose piuttosto velocemente, altre volte le soppesa di più, e le calca anche con una voce più bassa, con parole più scandite. Dopo un paio di secondi di silenzio dice «Non c’è niente», e lo ripete tre volte. È sconsolato, ma dice che «la cosa peggiore che può capitare è che non ti metti in moto per fare, che la disillusione la faccia da padrona e te ne freghi».

Ha dei pantaloni marroni della Carhartt, un cappotto verde sopra un maglione nero, e uno zainetto. Gli abiti di scena – la camicia bianca e il completo scuro – sono appesi alla porta del camerino. Dice – Mastandrea – che è «veramente tosta vivere a Roma» e che «tutto è cominciato 40 anni fa, forse, sì». Dice, sconsolato e serissimo, che «non c’è niente da dire», ma poi dice che «sono proprio giorni in cui si parla di Roma, tra di noi pure, persone che la città la vivono, la militano pure». Secondo lui Roma, ora, è come «un mercato dopo che se n’è andato via il mercato». «Roma è una città che o fai la guerra, vera, oppure non la cambi. Però la guerra non la puoi fare perché comunque è contro te stesso». Sta per fare Migliore, e quindi ci pensa, e ci collega quello che ha appena detto, allargandolo all’Italia. «Sei in un paese in cui il perdono è stato istituito – non c’entra un cazzo la religione cattolica – è proprio un modo per sentirsi sempre sicuri. Ecco: il nostro è l’unico paese che perdona tutti. Tutti».

Dice anche di non voler parlare della Roma – la squadra di calcio – e in effetti ne parla poco, ma dice: «Noi di AS Roma e di romanismo ne parliamo sempre con grandissima serietà, anche eccessiva». Dal calcio prende poi una frase detta da Nicolás Burdisso, ex difensore argentino della Roma, ora al Genoa: «Si gioca come si vive». Parlando del lavoro di un attore, e partendo dalla frase di Burdisso, Mastandrea dice: «Si affronta questo mestiere per come si vive, a seconda della sensibilità che c’hai». Mastandrea dice di non essere «un attore vero-vero fino-in-fondo», e spiega: «a me, me deve annà, e non me va quasi mai», «perché la vita col tempo ti restituisce cose che ti dava questo mestiere, perché non ce le avevi, quindi non te serve più ‘sto lavoro».

Mastandrea si fa notare come attore, e pochissimo come personaggio pubblico. Però è un personaggio: ha la faccia da cinema, si parla spesso della sua romanità e lui si fa notare per essere, quando lo si vede in tv o lo si segue sui social, infastidito da certe cose ma comunque divertito. Di certo divertente. Su Twitter scrisse, quando andò a Cannes: «Vorrei vedere un gabbiano di Cannes alle prese con uno di Roma. Se la sentirebbe molto meno calla di quanto sta facendo adesso». Di Los Angeles scrisse, appena dopo esserci arrivato: «14 ore di aereo per arrivare a Casalpalocco». Dei social dice: «sono tutti strumenti che non uso per lavorare, ma solo per cazzarare».

Mastandrea è anche su Instagram, dove una utente gli ha scritto che i suoi «scatti hanno sempre qualcosa di interessante e decadente» e a voler provare a capire chi è da YouTube ci sono un po’ di video notevoli. Quello in cui, ospite nel programma di Alessandro Cattelan con Marco Giallini, suo grande amico, imita un milanese; quello in cui triste e serissimo spiega l’antiromanismo al figlio – «perché chi pe’ sorride’ deve vedé piagne uno, mille, centomila, è uno che nella vita sua starà sempre in fila» – e quello in cui non si capisce se scherzi o sia davvero irritato con Paolo Ruffini, quando Ruffini condusse la cerimonia di premiazione dei David di Donatello, i più importanti premi del cinema italiano. Ruffini fu molto disinvolto e colloquiale; a Sofia Loren disse per esempio che era «sempre una topa meravigliosa».

Mastandrea dice che quella volta con Ruffini scherzava, anche se poi nessuno l’ha capito: «Io ho detto quello che tutta la gente in quel momento voleva dire a lui. La gente è cattiva, lo massacrarono. Io scherzavo». Dei David dice invece che – fino a qualche anno fa, ora un po’ meno – «era il luogo dove si celebrava una cosa: si celebrava se stessi, sempre con grandissimo astio e disprezzo nei confronti di ciò che si è, rispetto al mondo del cinema che celebra se stesso». Intanto, finita la focaccia, beve una Coca-Cola e mangia prima una mela e poi una pera.

Mastandrea non ha visto nessuno dei film americani delle ultime settimane, ma è interessato a Silence. Lesse il libro quando glielo consigliò Claudio Caligari, definendolo «pazzesco». Chiede quante nomination ha ottenuto e quando scopre che ne ha avuta una, per la Miglior fotografia, risponde: «Solo?». Del sistema produttivo del cinema americano non pensa grandi cose: «Perché il mio lavoro è un altro», e poi, marcando la voce «è vero». «Lì non è vero un cazzo ma lì conta tutto quello che non è vero». Però dice che sono bravi a fare quello che fanno perché «comunque ce mettono seduti due ore e mezza e stamo a bocca aperta». Non gli piace il «mito dell’attore americano che c’ha il tempo pe’ fa’ i film come cazzo vuole». «Voglio vedere come si porrebbero di fronte a una chiamata a fare un film venti giorni prima delle riprese, cosa che è successa a tutti noi». Aggiunge: «Sono degli attori straordinari. Come so’ degli attori straordinari gli attori balcanici, gli attori inglesi». Ma gli dà fastidio che li si veneri, e che li si prenda troppo a modello.

Mentre Mastandrea parla capita che entrino un paio di persone – una per salutarlo, perché è appena arrivata, l’altra per salutarlo perché sta andando via e poi non si vedranno per un po’ – e sul tavolo c’è il suo cellulare, che però lui non guarda mai. Ogni tanto tossisce, e si alza giusto un paio di volte, per salutare o per andare a buttare un fazzoletto nel cestino. Il camerino – in cui fa piuttosto caldo – ha le pareti di due colori: rosa, nella metà sotto, azzurre nella meta sopra; in mezzo c’è una linea rossa. Trovandocisi a caso si potrebbe capire che sono del Parenti (se si conosce bene il Parenti), perché lo stile è quello. Si farebbe però fatica a capire che è, per quei giorni, il camerino di Mastandrea: non c’è praticamente nulla di suo a parte quello che si è portato dietro quando è arrivato.

Mastandrea è critico anche verso «la nuova serialità» italiana, specie quando cerca di copiare quello che si fa all’estero: «I primi sceneggiati chi cazzo li ha fatti?», dice. Spiega poi che negli anni Ottanta si faceva l’errore di fare tutte le serie su «medici, avvocati e carabinieri» e che ora le serie parlano troppo spesso di «banditi del nord, banditi del sud e banditi del centro». Propone un po’ di sperimentazione e suggerisce, per fare un esempio, di fare «un Sex and the city al maschile. In provincia de Terni. Prova, cazzo». Di Netflix dice «ce l’ho, ce l’ho»: sta guardando The Crown, e gli sta piacendo. The OA invece non ha nemmeno provato a guardarla, che quelle cose gli mettono l’angoscia. Poi però – parlando di serie tv in generale, non solo di Netflix – si inventa un po’ di titoli in un inglese che non esiste (un po’ come quello di Celentano in Prisencolinensinainciusol) e spiega di non sopportare quelli che non accettano un «ma è una cazzata» come risposta e controbattono con un “ma devi reggere le prime cinque puntate”. «Ma che è? Un libro che devi superà pagina trenta?».

Prima di fare Migliore, Mastandrea era a Napoli, dove ha recitato, sempre con Torre regista, nella serie tv La linea verticale, ambientata in un ospedale. «È un altro pezzo da novanta», dice. Con la fine di gennaio ha finito anche con Migliore a Milano, che gli piace: «Milano si conosce da giovanissimi attraverso San Siro, dopodiché magari se c’hai una donna attraverso la donna e poi attraverso il mestiere. Almeno a me m’è successo più o meno così. Crescendo ho capito che da Milano è partito sempre qualcosa di grosso per il nostro paese, o in una direzione o in un’altra». Quando gli si chiede se conosce i Bagni Misteriosi dice «questi qua?», ma non sembra saperne molto, o interessarsene. Perché Milano «non l’ha mai memorizzata» (a parte San Siro, per mestiere) e non l’ha quasi mai vissuta «in un’altra maniera». Conosce meglio il Parenti e il suo pubblico, «un pubblico attento», anche se dice che il posto in cui Migliore ha trovato «il pubblico più attento e intelligente» è Macomer, in Sardegna.

A fine febbraio Mastandrea si metterà a preparare il suo film da regista, e quando lo dice si capisce che ne ha voglia, e già ne è orgoglioso. Lo dovrebbe girare tra aprile e maggio, ma sui tempi d’uscita dice «No, dipende». Il titolo sarà Ride. All’italiana: terza persona singolare di ridere. Eppure tanti lo dicono all’inglese: ràid, infinito di cavalcare, o andare in moto.
«Ma te rendi conto?».