I vecchi Cowboy Junkies

25 anni fa oggi uscì uno dei dischi migliori di una band canadese che ci mise del suo nella ricostruzione di un genere rock

(AP Photo/Morry Gash)
(AP Photo/Morry Gash)

25 anni fa, l’11 febbraio 1992, uscì Black eyed man, il quinto disco e uno dei più belli dei Cowboy Junkies, band canadese che contribuì tantissimo tra gli anni Ottanta e Novanta al successo di un genere (chiamato a volte “indie”, a volte “americana”, a volte “alternative”) che ebbe molte declinazioni diverse ma che si rifacevano ai suoni del rock tradizionale e alle tradizioni di cantautori e band americane. Nel caso dei Cowboy Junkies, tra il country, il blues, le ballate americane e certe cover rock. Si erano formati nel 1986 e avevano registrato nel 1987, trent’anni fa, il loro primo disco di successo The trinity sessions. Da Black eyed man Luca Sofri, peraltro direttore del Post, scelse tre canzoni per una playlist dei Cowboy Junkies nel suo libro Playlist, la musica è cambiata.

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Cowboy Junkies (1985,Toronto, Canada)
I tre fratelli Timmins erano di Toronto, e il bassista Alan Anton pure. Alla fine degli anni Ottanta furono, assieme ai 10,000 Maniacs, una delle band più popolari del nascente mondo della musica alternative (accorciato, “alt”) nordamericana. Una specie di Velvet Underground virati country-blues, con un debole per le covers dei classici. Le similitudini – con Velvet e Maniacs – si estendevano a una inconfondibile voce femminile, Margo Timmins.

Sweet Jane
(The trinity sessions, 1988)
Il secondo disco dei Cowboy Junkies fu registrato in una chiesa di Toronto in una notte e con un solo microfono. Ci misero ancora molte cover (il primo disco aveva una sola canzone loro), tra cui una versione rallentata, monocorde e ipnotica di “Sweet Jane” di Lou Reed, con cui si fecero notare e guadagnarono un notevole culto negli Stati Uniti e in Europa.

Powderfinger
(The caution horses, 1990)
Questa invece era di Neil Young, e anche a lei toccò lo stesso trattamento. Da grande pezzo rock divenne una ballata lentissima e lamentosa e commovente. Forse a sottolineare il rischio sonnolenza, nell’attacco formidabile sostituirono “look out mama…” con “wake up mama there’s a white boat coming up the river”.

A horse in the country
(Black eyed man, 1992)
A questo punto, le canzoni se le scrivevano quasi tutte da soli. E gli era venuto anche un po’ di buonumore. Un po’. Quanto basta per tirarsi su da un matrimonio con l’uomo sbagliato pensando al cavallo, in campagna, su cui “un giorno salirò in sella, e ce ne fuggiremo assieme”. Quanto basta per tirarsi su dal vedere gli amici diventare uguali a come erano i loro genitori, e pensare a Cathy che si è comprata un biglietto di sola andata e ha mollato tutto questo.

To live is to fly
(Black eyed man, 1992)
Due canzoni di Black eyed man erano di Townes Van Zandt, popolarissimo autore country che sarebbe morto pochi anni dopo. Una è questa. Dice che la vita è una lotta, ma bisogna godersi l’attimo, prendere le cose al volo, e non guardare mai indietro. To live is to fly: stropicciatevi gli occhi e scuotete via la polvere dalle ali.

If you were the woman and 
I was the man
(Black eyed man, 1992)
Somiglia molto a “Blue moon revisited (Song for Elvis)”, incisa nel loro secondo EP. Il tema è molto country, con “l’uomo” e “la donna”: ma si inventarono l’idea di chiedersi l’un l’altro cosa farebbero se i ruoli fossero scambiati.

Beneath the gate
(Open, 2001)
A un certo punto, la monotonia diventa monotona. I Cowboy Junkies smisero di essere i pupilli della critica e i campioni dei loro fans. Proseguirono a fare canzoni e dischi alla loro maniera, con belle musiche e con la voce di Margo Timmins, ma era tutto già visto e sentito. Ignorarono il mondo, e il mondo li ignorò. A cercar bene, in quei dischi che continuarono a fare, si trovano però ancora delle cose.

Thousand year prayer
(Open, 2001)
Morbido e geniale consuntivo di due millenni: “ci siamo mangiati tutto quello che ci hai dato, il resto lo abbiamo buttato. Abbiamo intrappolato i tuoi fiumi, lastricato ogni via, tirato il cielo fino a strapparlo. Ma tu ti sei preso Jimi Hendrix, quindi siamo pari”.

The slide
(One soul now, 2004)
Questa sembra di nuovo una canzone di Black eyed man, ma erano già passati dodici anni. Tra le canzoni notturne dei Cowboy Junkies, e le loro canzoni più ottimiste, sta con le seconde. Quelle che “sto passando un brutto momento”, ma magari ci si può fare qualcosa. “Gesù, caro Gesù, se mi senti, puoi farmi parlare con tuo papà? Non riesco a capire perché il suo amore è così crudele e faticoso”.

One
(Early 21st century blues, 2005)
Le cover di “One” degli U2 sono ormai infinite. Ma c’è da dire che i Cowboy Junkies sanno cowboyjunkizzare qualsiasi cosa, col trucco di tenere a bada la voce di Margo Timmins dall’inizio alla fine – appena un tono in più dopo tre minuti e mezzo – senza indulgere in nessuna tentazione di andar dietro al ricordo dell’originale.