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  • Lunedì 6 febbraio 2017

Trump contro i giudici, adesso

In attesa di sapere cosa sarà del “muslim ban”, sospeso dai tribunali, ha attaccato il sistema giudiziario con toni mai usati da un presidente

(MANDEL NGAN/AFP/Getty Images)
(MANDEL NGAN/AFP/Getty Images)

Il weekend dell’amministrazione Trump è stato forse il più complicato della sua breve presidenza: è cominciato con la sentenza del tribunale di Seattle che venerdì ha imposto una sospensione temporanea del cosiddetto “muslim ban”; è proseguito con il ricorso di Trump in una corte d’Appello di San Francisco che però ha respinto la richiesta di annullare la sentenza con effetto immediato, ed è finito con un duro scontro – avvenuto, ovviamente, su Twitter – tra il presidente degli Stati Uniti e il sistema giudiziario americano. Domenica Trump ha criticato duramente James Robart, il giudice di Seattle che ha bloccato il “muslim ban”, e in generale il sistema giudiziario, accusandoli di aver messo in pericolo gli Stati Uniti, di avere esposto il paese a «potenziali terroristi» e di aver fatto felici «le persone cattive». Trump ha addirittura suggerito di dare la colpa a Robart e i tribunali «se succederà qualcosa», accusandoli di ostacolare il suo lavoro.

Uno scontro del genere tra il presidente degli Stati Uniti e il sistema giudiziario non era mai successo nella storia recente degli Stati Uniti, soprattutto a così poca distanza dall’insediamento. Trump ha usato i suoi soliti toni aggressivi ed espliciti per attaccare uno dei tre poteri alla base dell’ordinamento repubblicano statunitense, lasciando intendere che nei prossimi quattro anni quello con i giudici e i tribunali sarà un rapporto molto teso e complicato.

Un breve riassunto di cosa è successo nel weekend
Dopo la sentenza di Robart, che ha temporaneamente sospeso il divieto di ingresso nel paese di tutti i rifugiati e dei cittadini di sette paesi a maggioranza musulmana, negli aeroporti di tutto il mondo c’è stata molta confusione su come applicare le nuove misure per l’accoglienza negli Stati Uniti. Solo sabato pomeriggio il dipartimento per la Sicurezza Interna ha annunciato che effettivamente tutte le misure prese per applicare l’ordine esecutivo erano sospese, e che quindi tutte le persone in possesso di un visto potevano entrare negli Stati Uniti a prescindere dal loro paese di provenienza. Il “muslim ban”, approvato venerdì 27 gennaio, aveva causato sofferenze e problemi a migliaia di persone, che si trovavano all’estero e non sono potute tornare negli Stati Uniti, dove in molti avevano famiglia e lavoro; 60mila visti sono stati revocati. Nel weekend, le associazioni che assistono le persone straniere e si occupano di diritti civili hanno consigliato a chi era stato interessato dal “muslim ban” di provare a prenotare al più presto un volo negli Stati Uniti. Si è capito dopo alcune ore che il dipartimento di Stato ha revocato tutte le cancellazioni dei visti seguite al “muslim ban”, ma che solo le persone i cui visti non erano stati fisicamente sequestrati potevano viaggiare. Gli altri hanno dovuto fare domanda per un nuovo visto.

All’inizio non ci sono state moltissime persone che hanno provato a salire su un aereo, anche per via della difficoltà di prenotare un biglietto con così poco anticipo. Con il passare delle ore alcune compagnie aeree hanno detto che avrebbero cominciato a imbarcare cittadini dei sette paesi coinvolti dal divieto, e gli aeroporti – che in molti casi non hanno ricevuto istruzioni precise su come comportarsi – hanno permesso loro di viaggiare. Il dipartimento di Stato ha anche ripreso a organizzare il trasferimento negli Stati Uniti dei circa 2.000 rifugiati il cui viaggio era previsto prima dell’ordine esecutivo. Sabato il dipartimento di Giustizia ha però fatto ricorso contro la sentenza di Robart in una corte d’Appello di San Francisco, chiedendo che venisse annullata ripristinando il divieto: la corte ha respinto questa richiesta, valutando di dover esaminare il caso in un normale processo e di fatto prolungando la sospensione del “muslim ban”. Già sabato, ma soprattutto domenica, sono iniziate a circolare online le foto e le storie delle persone che sono riuscite a imbarcarsi su un aereo e che hanno superato i controlli negli aeroporti americani.

Cosa succede ora
Tutto è nelle mani della corte d’Appello di San Francisco, che normalmente dovrebbe riunire tre giudici per decidere se accettare o meno il ricorso di Trump. Il governo però vuole che il caso sia esaminato il prima possibile, e qualcuno ha ipotizzato che la decisione possa essere affidata a un solo giudice per velocizzare le cose, o che i giudici si sentano solo telefonicamente senza riunirsi. Normalmente la prima riunione sarebbe fissata un mese dopo la presentazione del ricorso, ma tutto sarà più veloce in questo caso.

La corte ha chiesto agli stati del Minnesota e di Washington, che hanno dato inizio alla vicenda portando la causa contro il “muslim ban” davanti al tribunale di Seattle, di presentare le loro motivazioni entro le 4 di mattina di lunedì (le dieci in Italia), e ha chiesto al dipartimento di Giustizia, che ha fatto ricorso, di rispondere entro le 6 di sera (mezzanotte in Italia). A quel punto la corte potrebbe decidere immediatamente se confermare la sentenza di Robart, sospendendo il “muslim ban”, o se accogliere il ricorso di Trump. Oppure potrebbero fissare un’udienza in cui continuare la discussione. Il dipartimento di Giustizia ha detto che, almeno fino alla decisione di oggi della corte di San Francisco, non porterà il caso alla Corte Suprema. Nel frattempo 97 grandi aziende americane, tra cui Apple, Facebook, Airbnb, Netflix e Levi Strauss, hanno depositato alla corte d’Appello un documento per esporre le loro argomentazioni contro il divieto.

Almeno per la giornata di lunedì, quindi, le persone che erano state interessate dal divieto sull’immigrazione possono continuare a viaggiare verso gli Stati Uniti, se possiedono un visto valido. C’è comunque una diffusa preoccupazione su cosa potrebbe succedere se il divieto venisse ripristinato con effetto immediato: la prima volta c’erano stati arresti e lunghe detenzioni negli aeroporti, e in alcuni casi delle persone erano state fisicamente deportate perché non potevano entrare negli Stati Uniti. Nel primo weekend del divieto c’erano state grandi proteste in diverse città, ricominciate nei giorni scorsi per le nuove complicazioni legate al divieto: è probabile che in caso di un suo ripristino ce ne saranno altre, forse più grandi.

Tira una brutta aria tra Trump e il sistema giudiziario
Il problema, per Trump, è che quella del Minnesota e dello stato di Washington è solo una delle molte cause legali che riguardano il “muslim ban” attualmente nei tribunali degli Stati Uniti. La sentenza di Robart è stata la più concreta e importante, ma ce ne sono state altre in tribunali di New York e della California, per esempio, che hanno sospeso alcune parti del “muslim ban”. Nel weekend ne sono state depositate molte altre, che potrebbero creare ulteriori problemi al governo.

Il vicepresidente Mike Pence ha difeso il comportamento di Trump, che nel weekend era a Mar-a-Lago, in Florida, dove ha una residenza. Ma altri esponenti del Partito Repubblicano, oltre che naturalmente di quello Democratico, hanno criticato quella che giudicano una pericolosa mancanza di rispetto verso il sistema giudiziario. In particolare, in molti hanno fatto notare che non ci sono basi per dire che la sospensione del “muslim ban” ha messo in pericolo gli Stati Uniti, visto che nessun cittadino americano dall’11 settembre 2001 è stato ucciso in un attentato compiuto da una persona proveniente dai sette paesi oggetto del divieto. A molti è sembrato poi irresponsabile attaccare personalmente Robart, che Trump ha definito un “cosiddetto giudice”, addossandogli preventivamente la colpa di eventuali attentati. Il New York Times ha sintetizzato la situazione scrivendo:

L’acceso dibattito sul provvedimento sull’immigrazione ha portato al centro i problemi alla base della presidenza Trump. Uomo d’affari senza esperienza politica, Trump ha mostrato nei primi giorni della sua amministrazione che preferisce un approccio concreto, poco attento agli altri due rami del governo. Mentre il Congresso, controllato dai Repubblicani, si è adattato, il sistema giudiziario potrebbe diventare l’ostacolo principale per Trump.

Era già successo che un presidente degli Stati Uniti e i tribunali si scontrassero: alla fine della presidenza Obama un tribunale del Texas si era espresso contro una decisione del presidente che estendeva gli straordinari pagati a 4 milioni di lavoratori americani, mentre la Corte Suprema aveva stabilito che George W. Bush aveva abusato dei suoi poteri nella gestione dei sospettati di terrorismo detenuti a Guantanamo. Nessun presidente però aveva intrapreso uno scontro verbale così acceso e aggressivo con il sistema giudiziario. Ben Sasse, senatore Repubblicano del Nebraska, ha commentato dicendo: «Non abbiamo cosiddetti giudici, non abbiamo cosiddetti senatori, non abbiamo cosiddetti presidenti. Abbiamo persone dei tre diversi rami del governo, che fanno un giuramento per rispettare e difendere la Costituzione. Quindi non abbiamo cosiddetti giudici, abbiamo veri giudici». Anche Mitch McConnell, Repubblicano leader della maggioranza al Senato, ha espresso disappunto per il comportamento di Trump, dicendo: «Tutti a volte siamo delusi dalle decisioni dei tribunali sulle cose a cui teniamo. Ma credo sia meglio evitare di criticare individualmente i giudici».