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  • Mercoledì 1 febbraio 2017

Israele tornerà a espandere le colonie

Nell'ultima settimana ha approvato la costruzione di più di seimila case, dopo anni di relativa moderazione (c'entra anche Trump)

Martedì il governo di Israele ha annunciato di aver approvato la costruzione di circa tremila nuove unità abitative nelle proprie colonie in Cisgiordania, cioè quei territori che la comunità internazionale ha assegnato al futuro stato palestinese. La notizia non è rilevante in sé: il governo israeliano di centrodestra di Benjamin Netanyahu ha numeri molto risicati in Parlamento e dipende da tempo dall’appoggio di alcuni piccoli partiti di destra nazionalista, molto legati ai coloni. L’eccezionalità della decisione sta nei numeri: la scorsa settimana il governo aveva approvato la costruzione di altre 2.500 unità in Cisgiordania oltre a 566 a Gerusalemme est, che lo stato israeliano occupa da quasi 50 anni. In tutto nel giro di una sola settimana è stata approvata la costruzione di più di 6.000 abitazioni, cioè quante ne sono state effettivamente costruite in tre anni fra il 2013 e il 2015.

È un aumento notevole rispetto all’attività consueta, e che fra l’altro arriva dopo che per diversi mesi fra il 2015 e il 2016 era stato imposto un blocco “informale” alla presentazione di nuovi progetti edili nelle coloni. In molti temono che la decisione del governo allontani ulteriormente le prospettive di nuovi negoziati per la pace, dato che i leader palestinesi da qualche anno chiedono che la premessa per nuove trattative sia il blocco totale di nuove costruzioni negli insediamenti.

In molti hanno fatto notare che questa decisione arriva in corrispondenza di due fatti importanti per la politica israeliana: l’insediamento di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti, che ha alcuni membri dello staff molto vicini alla destra israeliana, e che ha già annunciato che intende esaminare misure molto controverse e divisive come lo spostamento dell’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme; e una questione che va avanti da mesi intorno alla colonia di Amona, che è stata costruita su un terreno privato palestinese e che nelle scorse ore la polizia israeliana ha iniziato a evacuare.

Le colonie israeliane in Cisgiordania sono considerate il principale ostacolo “materiale” al raggiungimento della pace: in diversi casi parliamo di piccole città in cui vivono migliaia di persone, che si sono stabilite nel corso di decenni con l’aperto appoggio del governo israeliano e che non hanno alcuna intenzione di andarsene. Negli ultimi anni, a causa di diversi fattori fra cui l’espansione demografica delle comunità esistenti e la complicità di vari governi israeliani, la popolazione delle colonie è aumentata notevolmente: all’inizio degli anni Novanta erano poco più di 100mila, oggi secondo diverse stime sono più di 400mila (e questi numeri non tengono conto dei popolatissimi quartieri israeliani di Gerusalemme est).

Nonostante l’appoggio trasversale che il movimento dei coloni ha sempre ottenuto dal governo israeliano, l’opposizione della comunità internazionale – e in particolare degli Stati Uniti, sia nell’amministrazione di George W. Bush sia in quella di Barack Obama – ha effettivamente ridotto l’espansione: dal 2010 al 2015, con l’eccezione del 2013, sono state costruite intorno alle mille unità abitative all’anno, numeri molto più bassi rispetto ad esempio gli anni del primo governo Netanyahu o dell’anno e mezzo di governo di centrosinistra di Ehud Barak, fra il 1999 e il 2001 (probabilmente l’ultimo governo israeliano ad aver cercato attivamente la pace, per mezzo degli incontri di Camp David del 2000, poi falliti). Nel 2010 inoltre, per sottolineare la buona volontà nel riprendere i negoziati, il governo israeliano rispettò un blocco parziale della costruzione nelle colonie, che però non ebbe seguito nella ripresa delle trattative. Fra il 2015 e il 2016 inoltre – in un periodo non coperto dal grafico qui sotto – c’è stato un altro blocco informale nella presentazione di progetti di espansione, dovuto anche questo alle pressioni della comunità internazionale e in particolare degli Stati Uniti.

statcolonie

Nonostante le costruzioni siano rallentate, non si sono affatto interrotte, mentre gli abitanti delle colonie esistenti hanno messo su famiglia; col risultato che la popolazione di questi posti è aumentata notevolmente, e così anche il loro peso nella politica israeliana. Grazie anche alla polarizzazione che sta avvenendo un po’ in tutto il mondo, i piccoli partiti della destra nazionalista hanno assunto un peso via via più rilevante, sottraendo consensi ai partiti più istituzionali – come anche il Likud di Netanyahu – e condizionando sempre più le politiche del governo. Al giorno d’oggi, ad esempio, è normale e accettato che un ministro del governo israeliano proponga apertamente di annettere tutta la Cisgiordania, come ha fatto più volte di recente il ministro dell’Educazione Naftali Bennett.

È normale che un governo del genere si senta più legittimato sia a fare dichiarazioni di questo tipo sia ad autorizzare nuove unità abitative nelle colonie sotto un’amministrazione americana che ha già promesso di essere molto più tollerante delle precedenti. Due esempi su tutti: il genero di Trump fino a poco tempo fa dirigeva una fondazione di famiglia che finanzia da anni alcuni movimenti legati ai coloni israeliani; l’ambasciatore scelto da Trump per Israele, David Friedman, è un convinto sostenitore delle associazioni pro-coloni, e in passato si è opposto alla soluzione a due stati (appoggiata da tutta la comunità internazionale). A testimonianza della nuova vicinanza fra l’amministrazione Trump e il governo israeliano, Netanyahu ha lodato pubblicamente più volte le prime controverse decisioni di Trump, e sarà uno dei primi capi di stato a fare visita alla Casa Bianca, il 15 febbraio.

La decisione del governo di espandere alcuni insediamenti è arrivata inoltre il giorno prima che iniziasse l’evacuazione forzata di Amona, la più grande colonia non autorizzata dal governo in terra palestinese. Fu fondata nel 1995 da un gruppo di giovani abitanti di Ofra, una vicina colonia fondata nel 1975, che occuparono unilateralmente un terreno privato sotto la giurisdizione di Silwad, un paese palestinese di seimila abitanti. Si sa che il terreno è privato ma non chi sia il proprietario.

Oggi ad Amona vivono circa 40 famiglie. Le case sono solamente dei prefabbricati – la legge israeliana non permette che i terreni palestinesi possano essere occupati unilateralmente con degli edifici “permanenti” – e al contrario delle colonie riconosciute dal governo, cioè la stragrande maggioranza, non è collegata alle principali città israeliane coi mezzi pubblici: ci si arriva solamente in macchina o a piedi. Sin dal 2006 la Corte Suprema israeliana ha ordinato l’evacuazione di Amona, ma nessun governo l’ha mai applicata. La situazione si è sbloccata quando la Corte Suprema ha insistito che Amona venisse evacuata entro il 25 dicembre 2016: pochi giorni prima della scadenza del termine gli abitanti hanno accettato l’offerta governativa di trasferirsi in una collina adiacente, ma alcuni abitanti – con l’appoggio di associazioni pro-coloni – hanno comunque manifestato violentemente contro la polizia l’1 febbraio, giorno fissato per l’evacuazione definitiva. Al momento, 15 poliziotti sono rimasti leggermente feriti negli scontri con i manifestanti.

Le autorità israeliane hanno probabilmente autorizzato un gran numero di nuove unità abitative proprio in questa settimana anche per questioni di comunicazione. A questo proposito esiste un precedente molto citato: quello dell’evacuazione di tutte le 21 colonie israeliane presenti nella Striscia di Gaza al termine della Seconda intifada, nell’estate del 2005. La decise il governo di centrodestra dell’allora primo ministro Ariel Sharon, probabilmente in un tentativo di dimostrare che Israele era disposto ad alcune concessioni (salvo però proseguire l’espansione delle colonie in Cisgiordania). In agosto tutti i coloni dei 1 insediamenti della Striscia furono costretti a lasciare la propria casa e accettare una compensazione del governo, pena l’evacuazione forzata: in diversi casi i coloni fecero resistenza, e in quelle settimane le tv e i giornali israeliani mostrarono decine di immagini di guerriglia urbana fra coloni e soldati.

TOPIX MIDEAST ISRAEL PALESTINIANS SETTLEMENTS Alcuni coloni cercano di resistere all’evacuazione della colonia di Neve Dekalim, in cui abitavano circa 2.600 persone, 18 agosto 2005 (AP Photo/Kevin Frayer)

L’attuale governo Netanyahu ha probabilmente cercato di evitare un nuovo effetto-Gaza: forse in questo caso sarebbe stato ancora più sentito, visto che a causa della demografia è sempre più probabile che un israeliano abbia un amico o un parente che vive in una colonia.

Qualcuno ha fatto notare che la maggior parte delle costruzioni decise dal governo avverrà in colonie vicine alla linea di confine riconosciuta dalla comunità internazionale, e che quindi espanderà territori già abitati solamente da israeliani e che sarebbero stati certamente ceduti a Israele in un ipotetico futuro negoziato. Così facendo però Israele continua nella sua strategia di continuare a porre facts on the ground, cioè impedimenti “fisici” di cui si deve tenere conto in un trattato: cosa che rende sempre più distante la prospettiva di un nuovo negoziato per la pace.